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Malcolm & Marie

Pubblicato il 6 febbraio 2021 da Francesca Pistocchi
VOTO:


Malcolm & Marie

Volente o nolente, la nuova opera del regista e sceneggiatore statunitense Sam Levinson - per la cronaca il figlio di Barry Levinson, buon sangue non mente - qui alla sua terza regia, è destinata a lasciare il segno. I motivi sono molteplici: tanto per iniziare, non solo per l’uso del bianco&nero ma perché si tratta del primo film girato interamente dopo lo scoppio della pandemia che ci ha resi protagonisti di un vero e proprio thriller dal finale aperto. Malcolm & Marie , visibile su Netflix, si disperde nelle atmosfere dilatate e claustrofobiche di un rapporto giunto ormai ad un vicolo cieco: i due protagonisti, rinchiusi in una dimora di vetro dai contorni a tratti evanescenti, non fanno che rincorrersi da una stanza all’altra, mappando la geografia delle nostre vite negli ultimi undici mesi. Forse l’intenzione dell’autore era un’altra, ma la mente vaga alla ricerca dei ricordi più recenti e l’insopportabile onnipresenza di corridoi, specchi, cornici, sbarre ci aiuta ad immergerci nelle carceri di un rapporto tanto instabile quanto indissolubile.

Dopo il successo che l’anteprima del suo ultimo lavoro sembra aver riscosso fra i critici, il giovane mago della cinepresa Malcolm (John David Washington) rientra a casa affiancato dalla compagna Marie (interpretata dall’eterea cantante e attrice Zendaya). L’adrenalina è a mille, la tensione fra i due all’apice del proprio potere distruttivo, fin dalla prima inquadratura sappiamo bene a cosa stiamo andando incontro. Qui si gioca a carte scoperte, e subito ci imbattiamo negli scheletri che la coppia inesorabilmente estrae dall’armadio comune: da un lato, il puerile narcisismo di lui, dall’altro la rabbiosa frustrazione di lei. La miscela, come al solito, si rivela esplosiva e i protagonisti entrano in rotta di collisione, vivisezionando la loro relazione così come la cinepresa viviseziona il lussuoso appartamento. Sopra a questo strambo teatro di marionette, il cinema trionfa con tutto il suo corteo carnevalesco: giornalisti, giurati, agenti, lacchè strizzano l’occhio a Malcolm, il quale ora può perfino permettersi di disprezzarne i servigi – ma pur sempre rimanendo al sicuro fra le mura trasparenti della sua villa-palcoscenico.

Le uniche coordinate donateci dall’obiettivo pare siano quelle che crudelmente delimitano gli spazi emotivi posti fra gli amanti. Eppure, il mezzo cinematografico ritorna con insistenza, spezzando i rari spiragli di umanità in cui i protagonisti si rifugiano alla fine di ogni discussione. Alle recriminazioni di Marie, ex tossica e (come ogni ex tossica) musa ispiratrice del suo uomo, si aggiungono i pamphlet di Malcolm contro i detrattori, i leccapiedi, il "New York Times", l’industria, il sistema, le conferenze stampa, la Hollywood patinata e ipocrita, il jet-set e chi più ne ha più ne metta. Levinson si fa beffe del politicamente corretto, inserendolo fra le labbra del protagonista solo per distorcerlo e rivelando così la vacuità dei sofismi da cui siamo costantemente bombardati. Ma ad essere messa in discussione è la stessa immagine in movimento, mezzo di espiazione e macchina omicida al contempo, pronta a redimere o consumare i suoi ingranaggi. Non si tratta di un banale litigio di coppia, i sentimenti risvegliati nella mente di chi osserva sono “molto più profondi” e anche molto più complicati, perché riguardano la vita di tutti e il modo in cui tutti si interfacciano con la propria vita – ovvero, attraverso i fotogrammi impressi su una pellicola 35 millimetri tanto reale quanto immaginaria.

Il rapporto fra i due si riduce ad una metafora di quel meraviglioso e spaventoso dispositivo chiamato cinema: il doloroso passato di Marie viene letteralmente succhiato via dal suo corpo e impiantato nel corpo di qualcun altro. Il risultato è ovviamente un capolavoro. I critici si accapigliano per avere l’ultima parola. L’operazione va a buon fine, la verità acquista una fisionomia ben nitida e universalmente riconoscibile, eppure scompare dietro al grande schermo. Marie non viene nemmeno menzionata nei ringraziamenti finali. Marie non esiste più. Malcolm, il grande artefice, si appropria della sua anima e ne divora il contenuto, scagliando contro i cronisti l’epiteto di “privilegiati” – senza però considerare la propria stessa appartenenza a tale categoria. I nomi di Billy Wilder e di William Wyler risuonano, loro malgrado, nella notte. In questo valzer dissonante è difficile capire dove finisca l’aforisma e dove inizi la cosiddetta autenticità – una parola insopportabilmente abusata, ma di cui ancora non sono chiare le fondamenta. Il suo significato ce lo spiega, a dieci minuti dall’epilogo, Marie: l’ultima, lunghissima tirata dell’attrice è una vera dichiarazione d’amore – verso sé stessa, verso il compagno, verso la sua storia e verso la storia che, direttamente o indirettamente, abbiamo vissuto seduti in sala. “Grazie” sussurra la ragazza con un mezzo sorriso, rivolgendosi tanto al suo uomo quanto alla macchina da presa “perché presumi il meglio”: e noi, nonostante tutto, ci sentiamo di fare lo stesso.


CAST & CREDITS

Malcolm & Marie - Regia: Sam Levinson; sceneggiatura: Sam Levinson; fotografia: Marcell Rév; montaggio: Julio Perez IV; interpreti: Zendaya (Marie), John David Washington (Malcolm); produzione: Little Lamb; origine: USA 2021; durata: 106’.


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