Marco Bellocchio: la famiglia che distrugge

«Io sfido Dio: se tra cinque minuti Dio non mi fulminerà avremo la testimonianza che non esiste. […] Tempo scaduto, Dio non esiste». Con queste parole si apre Vincere, l’ultimo lavoro di Marco Bellocchio, unico film italiano in concorso alla 62° edizione del Festival di Cannes. A lanciare questa sfida è un giovane Benito Mussolini, socialista, oppositore della Chiesa e del Regime, capace (come detto) di sfidare sia il Dio del Cielo che le divinità della terra, gridando che «con le budella dell’ultimo Papa strangoleremo l’ultimo Re». La Storia insegna che, successivamente, l’ardente socialista Mussolini lascerà il posto al dittatore che (purtroppo) tutto il mondo conosce. Eppure, parlando del Duce,ciò a cui i libri di Storia non fanno (quasi) mai riferimento è una certa Ida Irene Dalser e un certo Benito Albino Mussolini; mai accettati da Mussolini (anche se il giovane Benito, bersagliere che combattè la Prima Guerra Mondiale, prima di divenire dittatore, riconobbe il piccolo come suo figlio naturale) i due saranno considerati dei folli, rinchiusi in manicomio, separati l’uno dall’altra e mai più ricongiunti, uccisi da una società dittatoriale perché portatori di una verità troppo ingombrante per essere svelata. A differenza di ciò che potrebbe apparire sulla carta, Vincere non è un film sul Fascismo, né un film sulla figura di Mussolini, nemmeno un film sulla Storia dell’Italia: è vero, questi tre elementi esistono, sono forti, ma fanno solo da sfondo alla vera storia che Bellocchio vuole narrare: la storia di una famiglia “fuori dalla norma”.
Sono passati quasi quarantacinque anni da I pugni in tasca (1965), opera prima che ha sancito il successo (inter)nazionale di Bellocchio, e già in questo film sono citati tutti gli elementi che hanno fatto forte il cinema di uno dei maggiori autori italiani; è anche vero, però, che l’opera appena citata potrebbe essere vista come croce e delizia per il regista: talmente innovativa nel panorama cinematografico italiano degli anni ’60 da eclissare, il più delle volte, molti dei successivi (e ottimi) lavori dell’autore piacentino. Certo è che, ormai, ogni amante di buon cinema conosce perfettamente la storia di Alessandro, ragazzo disagiato che per ottenere la libertà di cui sente una forte esigenza, decide di eliminare tutti i simboli che lo opprimono: in una delle indimenticabili scene di quest’opera, il giovane (dopo aver ammazzato la madre cieca gettandola in un burrone, e prima di eliminare anche il fratello più minore, ritardato, annegandolo nella vasca da bagno) appicca un fuoco nel giardino della sua villa, alimentandolo con una bandiera tricolore (Patria) e ritratti dei suoi avi (Famiglia); all’appello del “sacro trittico” manca la religione, ma poco prima di questo incendio vi era stato il funerale della madre del giovane protagonista, celebrato da un prete a cui Bellocchio presta la voce, mischiando, in maniera del tutto grottesca, il latino religioso ad un “volgare” (data la circostanza) dialetto emiliano.
Sin da questo suo esordio, Bellocchio è stato sempre considerato come il regista arrabbiato del cinema italiano, capace di scagliarsi con grande forza contro tutti gli elementi forti della società borghese: ma, più di tutto, il regista piacentino è stato sempre in grado di portare sullo schermo la famiglia e i forti problemi che in essa sono situati; le varie famiglie mostrate da Bellocchio, partendo da I pugni in tasca per giungere alla pseudo-famiglia di Vincere, risultano (per vari contesti) delle famiglie “fuori dalla norma”: quella normalità borghese che pretenderebbe una felicità e una serenità interne ma che, in effetti, nasconde solo ipocrisie tali da far scoppiare la rabbia (e, alcune volte, la follia) dei protagonisti.
Il 1980 è l’anno di Salto nel vuoto, nel quale ritorna l’opprimente villa de I pugni in tasca, stavolta sotto forma di appartamento romano dove trascorrono la loro vita i fratelli Mauro e Marta Ponticelli, il giudice Mauro e Marta. Viene nuovamente riproposto il tema della famiglia che questa volta si sdoppia: da una parte c’è quella nevrotica e inquieta dei due fratelli, dall’altra parte una famiglia dolce e serena – la domestica Anna e suo figlio Giorgio – che il regista riprende in maniera amorevole essendo la sua famiglia – Anna è in realtà Gisella Burinato, moglie di Bellocchio, e Giorgio è Pier Giorgio Bellocchio, figlio della donna e dell’autore. Il film, così come l’opera prima, è girato all’insegna della malattia e della ribellione. Marta, alle soglie della menopausa, mostra segni di depressione e schizofrenia; Mauro, sempre più convinto che la sorella stia per diventare pazza e voglia tentare il suicidio, le fa conoscere Giovanni Sciabola, un attore di strada. Ma nessuno dei due capisce di cosa ha bisogno realmente la donna; lei alla fine si ribella e, grazie all’aiuto e alla complicità di Anna, con la quale instaura un veritiero rapporto d’amicizia, riesce ad abbandonare tutto ciò che la opprime: non solo l’appartamento nel quale è perennemente rinchiusa, ma anche il fratello. Proprio grazie a questa rivolta si capisce chi dei due sia realmente malato: non Marta, ma Mauro, oppresso da una folle normalità che la borghese vita quotidiana imprime sui suoi figli conformisti; e al giudice non resta altro da fare se non disperarsi – sempre in maniera pacata – all’abbandono della sorella, girare nevroticamente per le stanze del suo appartamento oramai vuoto e decidere di suicidarsi, lanciandosi nel vuoto. Tutto questo accade mentre Marta, ormai lontana, si risveglia nella casa di Anna, e, del tutto guarita, può ricominciare una nuova vita lontana dalle costanti oppressioni alle quali era sottomessa.
L’apoteosi della ribellione familiare avviene sicuramente in Il sogno della farfalla (1994) dove Massimo (il giovane protagonista) decide di chiudere tutti i rapporti con la sua famiglia e con un mondo che potrebbe solo danneggiare la sua anima innocente: all’età di quattordici anni il protagonista decide di non parlare più. Essendo un bravo attore, egli decide di esprimersi esclusivamente attraverso i classici teatrali, allontanandosi da una realtà caotica che trova una perfetta rappresentazione nella fabbrica rumorosa e malvagia in cui lavora Carlo, il fratello del protagonista. Tutti coloro che lo circondano cercheranno di riportarlo alla normalità: il padre, il fratello scienziato, la cognata Anna e anche la ragazza che, in un primo momento, sembrava aver compreso il suo silenzio. Continua la ribellione di Bellocchio, ma questa volta essa non è espressa in modo violento, brutale e omicida: in un mondo in cui regna il caos, l’unico modo di ribellarsi è esprimere tutta la propria rabbia tramite il silenzio, che, a volte, fa più male delle parole.
Dopo aver tante volte sterminato la sua famiglia, Bellocchio, nelle sue ultime opere, sembra essersi rilassato e, pacato, si avvia verso una ricongiunzione con il padre o, meglio, con la madre, così come accade in L’ora di religione (Il sorriso di mia madre) (2002). Ernesto Picciafuoco è un pittore di talento costretto a guadagnarsi da vivere illustrando libri per bambini; la sua esistenza viene sconvolta dall’incontro con un certo cardinale Piumini, il quale gli dice che la Chiesa ha avviato, su richiesta della famiglia un processo di canonizzazione della madre, uccisa da un altro figlio ora ricoverato in una clinica psichiatrica. L’esistenza del protagonista, ateo convinto, ora è in bilico tra il suo continuare a vivere libero e sicuro delle sue decisioni, oppure stare al gioco delle zie, dei fratelli e della ex moglie che, si capisce subito, cercano di portare a compimento questa santificazione per trarre dei vantaggi economici. Tutta la famiglia di Ernesto combatte affinché l’uomo possa dare la sua approvazione al fine di concludere il processo di canonizzazione: una fede falsa, quella delle zie, dei fratelli e dei parenti tutti, perché basata esclusivamente sull’avidità. Per la prima volta il protagonista del film di Bellocchio è un padre: Ernesto è un genitore coscienzioso e affettuoso; ama il suo piccolo Leonardo e la sua presenza rappresenta il monito per Ernesto a combattere e mantenere viva la sua integrità ideologica. Bellocchio non spinge più la madre giù da un burrone, ma la santifica dopo che un altro figlio l’ha ammazzata.
Ateo è un onesto pittore che ama suo figlio, credenti sono invece degli assassini che odiano il padre; a testimoniarlo è il segno della croce che i brigatisti di Buongiorno, notte (2003) fanno prima di ogni pasto. In questo film il regista non è più il figlio arrabbiato che odia il padre, ma è egli stesso padre che cerca il dialogo – è noto che il regista ha pensato, in un primo momento, di interpretare il ruolo di Aldo Moro. Il film è il ritorno a un passato che il regista riscopre per far fuoriuscire gli sbagli. I brigatisti non sono votati esclusivamente al male, ma quasi cercano un confronto con il padre Moro; purtroppo non possono rinnegare la loro ideologia e devono portare a compimento ciò che si sono proposti di fare: il leader che esce dalla sua cella e ritorna a casa fuggendo dai suoi carcerieri, è sì una visione irrealistica della storia, ma è quello che, in fondo, tutti avrebbero sperato succedesse. In realtà questo è solo lo speranzoso sogno di Chiara, l’unica che prende coscienza dello sbaglio che lei e i suoi compagni stanno commettendo; ma ormai è troppo tardi. Anche se Bellocchio dipinge i brigatisti in un modo quasi romantico, non li salva dal loro storico errore. Il padre è ora una figura comprensiva, ma cade comunque sotto i colpi dei figli arrabbiati e violenti, i quali portano avanti un’errata ideologia che non li rende affatto diversi da altri storici assassini.
Così come accaduto per Buongiorno, notte, anche Vincere elude l’idea di Storia (che pure doveva sembrare centrale nel discorso) per dar voce alla famiglia: una famiglia rinnegata, questa volta, da un uomo il cui potere diviene, giorno per giorno, talmente forte da schiacciare una moglie e un figlio che altro non avevano desiderato se non il suo amore.
Bellocchio sembrava essersi placato, ma, a ben vedere, non ha del tutto esaurito la sua rabbia, sostenuta dal suo eterno ateismo; e sembra proprio il caso di dire che se è la realizzazione di alcuni dei suoi capolavori è stata merito di questa sua rabbia, speriamo che possa ardere dentro di lui ancora per molto tempo.

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