Meduse
Incantevole ‘commedia di disgrazie’ presentata quest’anno a Cannes, firmata a quattro mani da Etgar Keret e Shira Geffen (una coppia anche nella vita) con rara levità e piacevolezza d’eloquio.
Etgar Keret è un apprezzato romanziere israeliano e i suoi best-seller vengono tradotti con successo ovunque. Qui trova una prodigiosa sintesi stilistica tra la sua prosa poetica e una forma cinematografica perfetta a renderne l’equivalente visivo, inventando, praticamente, un linguaggio suo proprio. Come per altri illustri predecessori, anche il suo è, a tutti gli effetti, un ‘cinema di poesia’.
Di disgrazie, si parlava. Si parte, difatti, subito col piede sbagliato: la prima scena riguarda l’addio di una coppia in mezzo a una strada. Contro di loro, un fondale marino. Tuttavia, scopriremo di lì a breve che si tratta solo di un dipinto. L’acqua la fa da subito da padrona: penetra i recessi della mente e ottunde le percezioni, le amplifica oppure le cancella, a seconda dell’interiorità di chi osserva. Le meduse del titolo, ad esempio, per qualcuno rappresentano solo robaccia, sporcizia, per altri, magari, immaginifiche sovrane del mare. Un liquido amniotico fluisce ovunque (perfino nelle case) e immette in comunicazione – privandoli della parola, che spesso ostacola il dialogo, piuttosto che favorirlo – individui non di rado diversissimi tra loro. Tra genitori e figli, come tra mariti e mogli, cala un sipario invisibile, una barriera di incomprensione che divide e, allora, diventa possibile sentirsi paradossalmente più vicini o confidarsi con chi sembra non avere nulla a che spartire con noi.
Viene dal mare la piccola, misteriosa bimbetta dai capelli rossi, che non spiccica una parola. I personaggi sono per lo più muti, in questa storia corale, o, al massimo, monosillabici. Manifestano il loro disagio esistenziale per vie traverse: lasciando lettere d’addio nate come poesie o tramite telefonate spesso, significativamente, bruscamente interrotte. La comunicazione, insomma, difetta: la madre della giovane cameriera Batya – uno dei molti superbamente schizzati personaggi femminili in scena – può alternativamente apparire sui manifesti giganti o esasperare la figlia al telefono: è, insomma, un corpo senza voce, oppure una voce ‘non umana’, meccanica.
Meduzot si affastella su una serie di accidenti inverosimili in grado di dar vita a una comicità delicata e spesso divertitamente ingegnosa: i favori del pubblico sembrano andare per la massima parte ai due infelici neo-sposi bersagliati dalla cattiva sorte, i più schiettamente esilaranti. Ma al di là della risata, la tragedia è sempre in agguato e pronta a colpire, anche nel loro caso. La malattia e la morte aleggiano nell’aria e inducono i vari personaggi a rifugiarsi in immagini mentali ovattate, come quelle della barca protetta dal vetro di una bottiglia, al riparo dalle pericolose onde del male. Questo stranissimo mix di lacrime e riso, così permeato di spirito surreale, fa pensare quasi a un Almodovar: ma a un Almodovar ‘che galleggia’.
Rimandi interni, richiami, ripetizioni, si riverberano all’interno dell’opera, turbando solo in superficie e increspando appena le acque. Alla fine, non si capisce bene come tutte queste ‘esagerazioni’ non stridano con la cornice solare, andando piuttosto a tessere una trama di preziosissima, impalpabile fattura. Praticamente un ricamo.
(Meduzot) Regia: Etgar Keret e Shira Geffen; sceneggiatura: Shira Geffen; fotografia: Antoine Heberle; montaggio: Sasha Frankline, François Gedigier; musiche: Christopher Bowen; scenografia: Avi Fahima; costumi: Li Almebik; interpreti: Sarah Adler (Batya), Nikol Leidman (bambina), Gera Sandler (Michael), Noa Knoller (Keren), Ma-nenita De Latorre (Joy); produzione: Yael Fogiel, Amir Harel, Ayelet Kit; distribuzione: Sacher Distribuzione; origine: Israele/Francia 2007; durata: 78’