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Metodifestival

Pubblicato il 21 ottobre 2009 da Salvatore Salviano Miceli


Metodifestival

Dal 2 all’11 di Ottobre si è svolta la seconda edizione di Metodifestival, rassegna internazionale sulle tecniche di recitazione. Ospitiamo volentieri una lettera del Direttore Artistico del festival, Gianluca Iumiento.





Ricomincia Metodifestival. Siamo alla seconda edizione, e tutto lascia credere che ce ne sarà una terza, una quarta e così via. Parlare di una nuova serie di seminari di recitazione, o pubblicizzarli, è diventato quasi imbarazzante, vista la pletora di workshop che si susseguono in continuazione sul territorio nazionale. Tutti interessanti, tutti incentrati su maestri o temi importanti. Ma qual è la loro reale efficacia, per il singolo attore e per la cultura attorale – o chiamiamola coscienza professionale, se preferite – del nostro paese? Non so. La mia impressione è che per incidere sulla realtà di un ambiente bisogna conoscere bene i problemi di quell’ambiente, le sue tradizioni vere o presunte, il microlinguaggio in cui si esprime. Traducendo i libri dei grandi maestri della recitazione, o degli allievi dei maestri, ho sempre cercato un dialogo con gli autori o con i loro successori, perché le domande erano tante: come si applica questo procedimento qui, dove sto io? Questa parola non verrà fraintesa? Sai riconoscere il problema di chi ti sta davanti, e adattare la tua tecnica a quel problema? Qual è il miglior sistema scolastico possibile, in questa didattica così sfuggente e soggetta alle mode, eppure sempre così richiesta e mitizzata? Metodifestival è nato dall’esigenza di porre dal vivo queste domande a chi insegna recitazione in contesti più organizzati ed efficaci del nostro – cioè delle nostre scuole pubbliche e private, della nostra cultura attoriale – ma senza scadere nell’astratto, nelle lamentele e nelle belle speranze, nella filosofia dell’opera d’arte dell’avvenire o nella nostalgia dei bei tempi andati. Domande tecniche, sullo sfondo di un insegnamento pratico. Una serie di workshop più un convegno. Vieni a insegnare, ma devi rispondere alle nostre domande, ricostruire il percorso delle tua tradizione, notare le differenze, metterti a confronto con gli altri metodi. «Deve essere come un convegno di odontotecnici», dicevo ai miei colleghi dell’organizzazione. Nel senso che dobbiamo partire da una serie di problemi pratici – riferiti alla didattica, all’insegnare, ma anche al mettere in pratica gli insegnamenti, al recitare – e far capire al pubblico di attori e allievi attori come queste parole, queste accezioni particolari di parole, queste sottili differenze tra un approccio e l’altro, questi fraintendimenti anche, sono alla base della loro arte, sono poesia. Un po’ maniacale, forse, ma poesia. Quest’anno abbiamo tre workshop: quello di Ron Burrus, che viene dal Conservatory di Stella Adler; quello di Lenard Petit, che insegna la tecnica di Michail Čechov nel suo Studio di New York; quello di David Kaplan, che alterna l’insegnamento nelle università alle sue regie in giro per il mondo. Lo scorso anno c’era un’insegnate russa, Natalja Zvereva, e poi William Esper, erede di Sanford Meisner, e Susan Cohen, del Lee Strasberg Theatre Institute. Quest’anno al convegno vengono anche due ospiti che vorrei vedere insegnare l’anno prossimo: Kathy Hendrickson, erede di Paul Sills (il figlio di Viola Spolin, che con la madre ha fondato il Second City Theatre di Chicago), e David Gideon, che è considerato uno degli eredi più brillanti della dottrina di Lee Strasberg. In pratica, stiamo seguendo gli sviluppi mondiali dello stanislavskismo. Tutti gli ospiti parlano in una specie di talk show, senza le prolusioni individuali che caratterizzano in genere i convegni. Botta e risposta, e dialogo tra tutti. Nel pomeriggio si svolgono i seminari: quattro ore al giorno per dieci giorni. Negli ultimi tre giorni il convegno si ferma per far spazio alle lezioni aperte, che ogni insegnante a turno offre alla visione esterna. Resta qualcosa, negli attori, di questa maratona? O, come tanto spesso è stato detto, gli attori rischiano di far confusione tra teoria e pratica? Per quanto mi riguarda, non credo che la teoria sia un modo per raggelare la pratica, impacchettarla e tramandarla ai posteri ormai soffocata. Credo che sia un modo per provocare una risposta, per sollevare problemi che possono essere compresi e risolti solo attraverso la pratica, mettendosi in gioco. I temi toccati dal convegno, e la stessa forma che gli abbiamo dato, servono appunto a provocare una reazione del genere: «Ora andate e provate». E poi scegliete quello che vi serve. Dicevo che stiamo sulle tracce degli sviluppi mondiali dello stanislavskismo. Ora, qualcuno dirà che al mondo non ci sono solo Russia e America. E l’Inghilterra? E la Germania, la Francia, e gli altri continenti? Dateci tempo.


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