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Minamata - Berlino 2020

Pubblicato il 2 marzo 2020 da Matteo Galli

VOTO:

Minamata - Berlino 2020

Chi si occupa di fotogiornalismo non può non conoscere W. Eugene Smith (1918-1978), uno dei fotografi più celebri, collaboratore storico di Life e dell’agenzia Magnum. Chi conosce W. Eugene Smith non può non conoscere la sua foto più straziante, la splendida Pietà intitolata Tomoko Uemura in Her Bath, una fotografia scattata nel 1971 nel quadro della lunga e tormentata attività di sensibilizzazione da parte di Smith, insieme alla moglie giapponese, in merito alla cosiddetta sindrome di Minamata, una malattia che scoppiò in Giappone nell’omonima cittadina, sede di un complesso chimico, la Chisso Corporation, colpevole di riversare nelle acque della baia rifiuti tossici con una quantità di mercurio incomparabilmente superiore al consentito. Il pesce inquinato provocherà soprattutto nei bambini, anche perché per molto tempo quel pesce verrà impunemente servito nelle mense scolastiche, delle devastanti malformazioni e in molti casi la morte. Si calcola che siano state colpite più di 2000 persone da questa malattia, e quasi tutte sono morte precocemente. Il governo giapponese impiegò più di dieci anni ad ufficializzare la malattia, la Chisso si dimostrò tutt’altro che incline a risarcire i malati e i parenti, malgrado un considerevole numero di attivisti che attuarono numerose forme di protesta. Fu (anche) grazie al reportage di Smith che l’industria venne finalmente portata in tribunale e si trovò costretta a pagare per i danni procurati nonché, ovviamente, a cessare di inquinare la baia di Minamata.

Di questo parla l’onesto film, di produzione britannica, diretto dall’artista newyorchese (pittore, scultore, fotografo, scrittore e occasionalmente anche regista) Andrew Levitas, ma il cui valore aggiunto è, oltreché la produzione, l’interpretazione di Johnny Depp, imparruccato e bollito, nei panni appunto di W. Eugene, detto Gene, Smith. Non sappiamo (e alla fine poco interessa) quanto di quel che ci viene raccontato corrisponda al vero - a parte ovviamente la figura storica di Smith, la moglie, la sindrome di Minamata, le figure degli attivisti e la Chisso – quel che conta è il fatto che la drammaturgia del film si regge su due conflitti, entrambi tirati qua e là un po’ troppo per le lunghe. Nella prima parte il conflitto è fra lo stato in cui versa Smith, solo alcolizzato e non lontanissimo dall’idea di farla finita, sepolto nel suo studio/tugurio di New York e il tentativo degli attivisti giapponesi, memori dei suoi réportages bellici (uno dei servizi fotografici più celebri di Smith riguardò la battaglia di Okinawa che gli provocò anche importanti lesioni, di cui nel film s’intravedono tracce oltreché nel corpo anche in forma di flash traumatici), che lo vanno a cercare proponendogli di mettere la propria macchina fotografica e il proprio talento a disposizione per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sul tremendo disastro che sta avvenendo. Faticosamente Smith si rimette in moto convincendo il direttore di Life (ottimamente interpretato da Bill Nighy) a dargli un’ultima chance, pur fra mille perplessità.

Dopodiché ha inizio la lunga seconda parte in Giappone (girata, peraltro, in larga parte in Serbia e in Montenegro, immaginiamo soprattutto le scene ambientate dentro il colosso chimico e dintorni), dove, anche qui, Gene fa fatica a mettersi davvero in moto, a trovare l’ispirazione e in fondo anche ad appassionarsi alla vicenda, malgrado nel frattempo con l’attivista giapponese sia nato qualcosa (diventerà sua moglie!). Il fotografo è un tale rottame umano, ha nel sangue un tale tasso alcolico che persino le sue innegabili capacità tecnico-artistiche sembrano essere compromesse. Poi nella seconda parte, a poco a poco, Smith si appassiona alla vicenda e lì s’innesca il secondo conflitto quello con la corporation che, avendolo riconosciuto, fa di tutto per metterlo a tacere: prova a corromperlo, lo fa malmenare ben bene e addirittura fa dar fuoco alla casupola di legno adibita a studio fotografico con tanto di camera oscura. È a causa di quest’ultima impennata che il fotografo davvero si accende dando vita al reportage che poi verrà pubblicato in Life e che costituirà il colpo di grazia per la Chisso.

Siamo in presenza di un classico film di denuncia, nei titoli di coda, le notizie su Minamata vengono accompagnata da fotografie di altri disastri ambientali degli ultimi decenni: da Chernobyl a Seveso da Fukushima alle varie intossicazioni di mercurio, alluminio, bromuro, talidomide etc che hanno provocato malformazioni e morti. Un ruolo non secondario nel film viene svolto dal conflitto o comunque dalle differenze interculturali fra gli USA e il Giappone, con un diverso concetto di intimità e di onore.
Nell’insieme – come detto – si tratta di un film onesto, seppur ridondante e un po’ retorico, non ultimo a causa della presenza troppo massiccia della musica composta da Ryūichi Sakamoto.


CAST & CREDITS

(Minamata); Regia: Andrew Levitas; sceneggiatura: David K. Kessler, Stephen Deuters, Andrew Levitas, Jason Forman; fotografia: Benoît Delhomme; montaggio: Nathan Nugent; musica: Ryūichi Sakamoto; interpreti: Johnny Depp (W. Eugene Smith), Hiroyuki Sanada (Mitsuo Yanazaki), Minami (Aileen), Bill Nighy (Bob Hayes); produzione: Metalwork Pictures, Londra; origine: Regno Unito 2020; durata: 115’


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