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Miss Violence

Pubblicato il 31 ottobre 2013 da Salvatore Salviano Miceli
VOTO:


Miss Violence

Il rigore geometrico della messa in scena, i movimenti ragionati e misurati della mdp, l’assoluta simmetria della quasi totalità delle inquadrature costruiscono una corrispondenza dolorosa ed estenuante con l’enormità dell’orrore che la storia nasconde.
Miss Violence sceglie la sottrazione, non chiarisce ma evoca, eppure suggerisce con lucidità ciò che lo spettatore si sforza di credere non sia possibile. Poi, quasi inaspettata, si spezza la catena del non detto. È una sola unica sequenza, crudele tanto da risultare quasi insopportabile, a materializzare tutti i sospetti e le paure di chi osserva. Avranas, il regista, la inserisce senza anticipazione alcuna, asetticamente, ancora una volta seguendo le logiche di una messa in scena ieratica e glaciale. Svelare ipocrisie e morbosità di una relazione familiare deviata e nascosta è forse il definitivo atto di responsabilità che il film e il suo autore si assumono con coraggio.
L’abuso sui minori, qui continuato e perpetuato nel tempo, tanto da dare vita ad una famiglia nata esclusivamente su dinamiche incestuose, rischia spesso la banalizzazione passando attraverso il racconto cinematografico. Per quanto si rinnovi spontaneamente lo sdegno ad ogni confronto con una tematica del genere, fantasmi e mostri sembrano restare ancorati allo schermo, subendo una qualche forma di edulcorazione. Lo stile con cui Avranas declina la sua narrazione pare scongiurare questa possibilità. Miss Violence resta fisso in mente. I tanti quadri di cui si compone il film divengono flash in cui trovano facile coesistenza la negazione e il surreale.
Non c’è una speranza nella storia diretta da Avranas. Non c’è speranza perché la sappiamo non solo perfettamente plausibile ma drammaticamente autentica. Non c’è speranza perché l’epilogo non apre alla libertà, piuttosto si piega ad una nuova prigionia, sottolineando un potere che non si esaurisce ma che modifica le mani di chi lo detiene.
Il cinema del giovane regista greco esplora le dinamiche familiari cercando nei punti più oscuri (il precedente Without lo conferma), preferendo sempre allontanarsi da una narrazione didascalica e lasciando che sia lo sguardo a indagare e scoprire. In questo Haneke sembra più di un semplice riferimento. Non tanto per la stessa tendenza, comunque presente, a diluire e rarefare il ritmo della storia, quanto per la volontà di lasciare che sia il gesto del regista e l’organizzazione dello spazio a guidare la costruzione e lo svelamento del senso del racconto. La similitudine regge anche in riferimento alla direzione degli attori - tutti molto bravi ma una citazione a parte merita il protagonista Themis Panou - le cui fisicità sono inseguite ed indagate con atteggiamento distaccato ma estremamente attento.
Chi ipotizza poi che il film celi anche metafore relative alla odierna situazione economica della Grecia, e al suo stato di controllata da parte dell’Unione Europea (riferendosi alle figure degli ispettori di polizia che indagano sulla morte della undicenne) forse non ha del tutto torto, ma sembra comunque una forzatura eccessiva nei confronti di un film che racconta altro, e lo fa molto bene.


CAST & CREDITS

(Salvo); Regia: Alexandros Avanas; sceneggiatura: Alexandros Avranas, Kostas Peroulis; fotografia: Olympia Mytilinaiou; montaggio: Nikos Helidonides; scenografia: Eva Manidaki, Thanassis Demiris; interpreti: Themis Panou (padre), Reni Pittaki (Madre), Eleni Roussinou (Eleni), Sissy Toumasi (Myrto); produzione: Faliro House, Elle driver; origine: Grecia, 2013; durata: 92’;


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