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Misura per misura

Pubblicato il 10 maggio 2007 da Giovanna Vincenti


Misura per misura

Roma, Teatro Argentina - Uno sfarzosissimo allestimento per questo straordinario ‘dramma dialettico’, purtroppo così poco frequentato dal teatro italiano (la prima messa in scena risale solo al 1957). Quasi trenta attori tecnicamente ineccepibili si muovono in un’imponente scenografia di ferro arrugginito, che esalta la decadenza morale e la corruzione dei costumi, centrali in quest’opera che, non a caso, spesso viene definita ‘dark comedy’. Ma a dispetto della scarsa quantità di messe in scena, compensata tuttavia dalla loro eccellente qualità (le firme di registi del calibro di Squarzina, Ronconi, Cecchi e Brook possono ben testimoniarlo… ), per Gabriele Lavia, che affronta questo testo come attore, questa è addirittura la seconda volta. Nel 1976, infatti, era lui l’Angelo nell’allestimento di Luigi Squarzina (che oltre ad essere uomo di teatro è anche uno dei massimi esperti shakespeariani, e che proprio a Misura per Misura ha sempre rivolto una particolare attenzione, tanto come regista che come teorico). Ma ‘uno spettacolo vive nella sua precaria attualità’ afferma lo stesso Lavia in conferenza stampa, preannunciando un sostanziale distacco dall’esperienza precedente. Così, in questa rilettura in chiave moderna di questo classico così complesso e problematico, si pone l’accento soprattutto sul tema della lussuria: ‘Al centro c’è il tema del sesso. Se andiamo a stringere, Misura per Misura è la storia di un condannato a morte per aver fatto l’amore con una vergine. Tutta la corruzione del mondo ha come paradigma il sesso’, afferma ancora il regista, il che chiaramente è vero, ma non basta. La vicenda di Claudio e Giulietta, infatti, è una sorta di pretesto per vedere agire i veri protagonisti dell’opera: il Duca, simbolo del potere temporale, l’uomo di stato che più che della società in generale (per la quale, come del resto per lui stesso, il sesso è una componente essenziale ed irrinunciabile della vita), vuol ‘testare il metallo’ di due personaggi, in particolare: da una parte Angelo, il vicario, e dall’altra Isabella, sorella di Claudio, simbolo delle due branche del cristianesimo: ‘estremista puritano’ il primo, tanto quanto la seconda è ‘estremista cattolica’. Non dimentichiamo, infatti, che Shakespeare scrisse quest’opera sotto il regno di Giacomo I, in un periodo in cui gli scontri religiosi in Inghilterra, come in tutta Europa, erano quanto mai accesi e violenti. Lo scioglimento del dramma dimostra, poi, che in fondo è l’uomo di stato, laico per definizione, a ristabilire l’ordine, sebbene in questo caso era stato lui stesso a destabilizzarlo volutamente con il suo machiavellico piano. Proprio come in quel tempo aveva fatto Elisabetta, per la quale la religione doveva essere a servizio dello stato.
Tali riflessioni, al di là della loro valenza storica, sarebbero tornate più che utili anche in una rilettura moderna del testo, in un’Italia che sembra non avere ben chiaro il concetto di laicità dello stato. Ma sebbene Lorenzo Lavia sia particolarmente convincente nel ruolo del puritano con il ghiaccio nelle vene (pronto a sciogliersi però davanti alla casta Isabella), questo particolare significato dell’opera sembra rimanere nell’ombra. Il rischio è allora che il tentativo di attualizzare questo classico risulti un’operazione puramente formale, sicché l’eccessiva libertà di costumi degli assidui frequentatori dei bordelli è resa attraverso abbigliamento e atteggiamenti all’insegna di un’ostentatata e stereotipata lascivia (lo stesso Lucio, per intenderci, sembrerebbe una citazione non proprio dichiarata di Mercuzio nella recente versione cinematografica di Romeo e Giulietta), mentre invece non si sottolinea abbastanza l’ipocrisia e l’egoismo di un personaggio come Isabella, che pur volendo apparire come la quinta essenza della bontà e della carità cristiana, preferirebbe veder rotolare dieci teste pur di non perdere la sua verginità.
Lascia qualche perplessità, del resto, anche il fatto che il testo sia stato lasciato intatto, con il risultato di tre ore di spettacolo in cui le azioni vengono annunciate, compiute e molto spesso raccontate nuovamente. È vero, infatti, che in questo modo si ha la possibilità di godere delle magistrali abilità interpretative di Gabriele Lavia che, soprattutto sotto le mentite spoglie di frate, da il meglio di sé, ma si corre anche il rischio di ‘spaventare’ chi non è assiduo frequentatore di teatro. Bisognerebbe, infatti, avere il coraggio di tagliare Shakespeare, anche se solo l’idea può suonare sacrilega, poiché le sue opere sebbene immortali ed eterne hanno la caratteristica di essere lunghe, e non perchè lui fosse particolarmente prolisso, ma perché nel ‘600 il modo di fruire il teatro era molto diverso da oggi e le ripetizioni erano una necessità. Così, sebbene non si sia risparmiato alcun mezzo per creare una messa in scena sbalorditiva, con scenografie, costumi, giochi di luci e scene di massa che incantano l’occhio dello spettatore, e sebbene la bravura degli attori resti indiscussa, si ha la sensazione che un certo modo di fare teatro sia destinato ad essere apprezzato solo dagli ‘addetti ai lavori’ e che il tentativo di farsi più accessibile sia solo apparente. Ciò poiché la pretesa attualizzazione dell’opera, da una parte determina un sostanziale appiattimento di contenuti, violando così l’immortalità del classico, e lascia, invece, pressocché intatta, e dunque anacronistica, la forma.


Autore: William Shakespeare; Traduzione: Alessandro Serpieri; Regia: Gabriele Lavia; Interpreti: Gabriele Lavia, Pietro Biondi, Pino Ammendola, Lorenzo Lavia, Federica Di Martino, Francesco Bonomo, Marco Cavicchioli, Gianni De Lellis, Luca Fagioli, Rita di Lernia; Scene: Carmelo Giammello; Costumi: Andrea Viotti; Musiche: Andrea Nicolini; Coreografie: Luca Tommassini.


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