Molly Sweeney

Roma, Teatro Valle – Ancora una volta, dopo la sua originale versione dell’Elettra di Hofmannsthal, il regista Andrea De Rosa sembra voler sfruttare al massimo l’attività percettiva del pubblico facendo sì che esso si trovi immerso o, addirittura, in balia della rappresentazione. Del resto, già la scelta di portare in scena un testo come Molly Sweeney presuppone una particolare sensibilità e la volontà di interrogarsi sull’estrema soggettività con cui ciascuno di noi crea la propria immagine del mondo basandosi sulle proprie capacità sensoriali; sensibilità e volontà che De Rosa aveva già avuto modo di dimostrare con il suo cortometraggio Appunti per una fenomenologia della visione.
La genesi di quest’opera ha origine da un episodio della vita dell’autore: dovendosi sottoporre ad un intervento agli occhi, Friel si era, infatti, particolarmente interessato al rapporto tra cecità e percezione tanto da documentarsi su svariati testi, tra cui il saggio To See and Not To See del neurologo Sacks, in cui è riportato un caso clinico che ispirerà la vicenda di Molly. A tal proposito, riecheggia anche quel ‘jokose problem’ sottoposto nel 1693 da William Molyneux al suo amico John Locke: ‘Immaginiamo un uomo cieco e ormai adulto, a cui sia stato insegnato a distinguere un cubo da una sfera mediante il tatto e al quale venga ora data la vista; sarebbe egli in grado, prima di toccarli, di distinguerli, dire quale sia la sfera e quale il cubo, servendosi solo della vista?’. La risposta a questo interrogativo Friel sembra offrircela attraverso la tragica parabola della sua protagonista: Molly Sweeney è, infatti, una quarantenne, cieca fin dai primi mesi di vita, che conduce un’esistenza tranquilla, stabile e serena nell’immaginaria Ballybeg, fino a quando non viene costretta ad abbandonare il suo mondo per raggiungere il nostro, che per lei altro non è se non un abisso sconosciuto ed inquietante.
La costante tensione di Brian Friel a ricercare modi diversi e personali di rapportarsi al reale (si pensi a testi quali Dancing at Lughnasa o Give me your answer, Do!) trova un solido appoggio nella regia di De Rosa il quale, per meglio far entrare in sintonia il pubblico con la protagonista, immerge il teatro nell’oscurità più profonda nei primi trenta minuti di spettacolo. Si è chiamati a percepire solo i suoni, o meglio i ‘ricordi sonori’ di Molly. Suoni che accarezzano e avvolgono lo spettatore ‘brancolante nel buio’, grazie all’impianto audio a dodici punti di diffusione progettato da Westkemper. Poi viene la luce, per Molly e per noi. E, quando anche l’ultima benda è stata tolta, sebbene la nostra di cecità fosse soltanto un semplice artificio, siamo ancora legati a Molly dal fastidio che forme, luci e colori ci danno imprimendosi gradualmente sulle nostre retine viziate dal buio. Sensazione amplificata dalla raffinata scenografia, in cui pochi elementi dai brillanti colori ‘si staccano’ dallo sfondo bianco, e dal magistrale utilizzo delle luci con cui, ricreando un costante effetto di ‘rumore visivo’, ci viene offerta una sorta di visione onirica.
Ma la regia di De Rosa è anche attentissima a rispettare e a valorizzare un’altra fondamentale peculiarità del testo: la sua struttura. Esso si compone di 36 monologhi, che i tre personaggi interpretano senza interagire mai tra loro, pur calcando la stessa scena, giungendo così ad una estremizzazione di quella soggettività su cui si fonda il contenuto dell’opera. Ognuno espone, dunque, la propria personale versione di un episodio che ormai è relegato nel passato, così come, all’epoca dei fatti, ognuno aveva perseguito ‘ciecamente’ la propria idea: il Dr. Rice, anziano oftalmologo la cui carriera era in fase di stallo, aveva intravisto nell’operazione di Molly la possibilità riscattarsi professionalmente; il marito, giovane rampante, considerava Molly un’ennesima sua missione caritatevole a cui dedicarsi, una di quelle nobili sfide che la vita impone; ed infine, Molly l’unica presaga della catastrofe che si stava per abbattere su di lei, si ritrova a subire le decisioni impostele dagli altri, così poco preoccupati di comprenderla.
Grandi temi, dunque, quali la soggettività della percezione e l’incomunicabilità sono racchiusi in un testo agile ed avvincente che De Rosa restituisce al pubblico nella sua reale essenza.
Autore: Brian Friel: Traduzione: Monica Capuani, Marta Gilmore; Regia: Andrea De Rosa; Scene: Laura Benzi; Costumi: Ursula Patzak; Luci: Pasquale Mari; Suono: Hubert Westkemper; Aiuto regia: Flaminia Caroli; Interpreti: Valentina Sperlì, Leonardo Capuano, Umberto Orsini.
