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My son, my son, what have ye done

Pubblicato il 9 settembre 2010 da Carlo Dutto


My son, my son, what have ye done

Irrompeva un capolavoro, a sorpresa, e che sorpresa, durante la scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Un regalo che Werner Herzog presentava in concorso scardinando - come solo un Junger Deutscher poteva fare - anche le regole ferree di un festival spesso ingessato. Primo caso di due film in concorso diretti dallo stesso regista, My son, my son, what have ye done rese il visionario Herzog, all’anagrafe Stipetic, da quel momento in poi faro di un festival che fino ad allora poche, vere sorprese aveva presentato. Il film è cantilena dolce e cruenta, glaciale e violenta, un film dell’orrore senza sangue – nelle parole del suo demiurgo.

La costruzione a flashback permette alla narrazione un respiro che sottolinea la provenienza cronachistica della storia, una vicenda realmente accaduta (protagonista il giovane Mark Yavorsky) riassumibile in una one line pitch: un aspirante attore Brad (Michael Shannon) uccide la madre e si barrica in casa. Fuori, polizia, un regista e la fidanzata ricostruiscono in un mosaico di ricordi le dolenti fasi di una discesa negli inferi della mente del giovane. Il tutto ambientato in una San Diego periferica, fatta di villette a schiera e tè pomeridiani con le siure del vicinato, di noia e frustrazione.
Sono così lontani eppure così vicini plot e narrazione del Woyzeck, i volti e le tensioni dei corpi di Shannon e Kinsky in un connubio temporale che ci riporta a trenta anni fa. Un delitto e la sua genesi accomunano questi due gioielli.

Herzog connette il sobborgo tranquillo e middleclass di San Diego con le inospitali (?), verdissime foreste peruviane che circondano il fiume Urubamba, luogo da cui scatta il bizzarro, affascinante misticismo egomaniaco del protagonista. Si odono echi delle melodie dei Popul Vuh, avvolgenti come anaconde, si odono tra i flussi del fiume in piena le grida deliranti di Aguirre e i versi di scimmie su chiatte di legno alla deriva.
La tragedia greca irrompe sul palco e nella claustrofobia di una villetta pink a un piano, con soffitto basso: il matricidio di Sofocle è sottopelle, Oreste ha abbattuto la quarta parete per rifugiarsi in questa casetta a San Diego. Tutto è suggerito, appena accennato, pennellato per lanciare aghi nella pelle dello spettatore.
Michael Shannon riesce a toccare ogni corda di interpretazione: emoziona, spaventa, calamita symphateia. Come già nell’interpretazione in Bug – La paranoia è contagiosa e nel John Givings del recente Revolutionary Road, l’attore trentacinquenne presta volto e postura a un personaggio paranoide, ossessionato dai pink flamingos e da una spada della vendetta, simbolo e strumento di liberazione dell’anima. L’anima di Brad-Shannon è condensata nello sguardo stare, metafora kubrickiana già di Jack Torrance e Palla-di-lardo. Uno sguardo che è nuovo punto di vista del mondo, nuova angolazione, inquietante e surreale.
Perfetti, da cineteca la Chloë Sevigny in maglioncino beige, il Willem Defoe poliziotto e il Brad Dourif di Mississipi burning che entra di fatto nella factory herzoghiana, costruendo personaggi di caratura mefistofelica di basso profilo e alta resa (anche interpretando l’allibratore del Cattivo Tenente). Meno convince Udo Kier nel ruolo del regista teatrale, ma forse ci sbagliamo.
I personaggi sono puro concentrato Herzog: insofferenti allo status quo, delusi e senza mete in un mondo che brucia gli outsiders non allineati, caratteri che si rifugiano in un ribellismo infantile, primitivo, senza sbocchi. Destini alla deriva che tentano di scavalcare montagne con una nave o di sfuggire a madri paranoidi attraverso l’omicidio con una spada dagli antichi effluvi deliranti.

Il connubio con il David Lynch che produce, irrompe in ogni singolo frame, senza permettere respiri. Una commistione di stili registici che trovano gli apici nel disequilibrio: in due poetiche che non si mescolano, ma si intrecciano mantenendo le proprie peculiarità. Così Lynch vive nelle oniriche scene comuni girate in strada o negli interni che schiacciano i personaggi, mentre Herzog respira a pieni polmoni nelle foreste peruviane e nelle polverose strade di Tijuana. Inquadrature congelate, costruite come tableaux vivant, movimenti di macchina che diventano morbidi balli sensuali, mostrandoci la crime scene dal punto di vista di una lattina o il pubblico di curiosi incorniciati nel vetro di un’ambulanza. Un connubio-bomba esploso: meraviglioso, puro godimento visivo, eterea poesia del quotidiano, poesia dell’omicidio che prende in ostaggio fenicotteri e spettatori.
Werner Herzog: un regista che davvero proviene da un’altra galassia, una galassia celeste, molto, molto lontana dal nostro mondo, dall’Ignoto Spazio Profondo. Un viaggio prezioso condotto con un accompagnatore di lusso.

[Carlo Dutto]


CAST & CREDITS

(My son, my son, what have ye done); Regia: Werner Herzog; sceneggiatura: Werner Herzog, Herbert Golder; fotografia: Peter Zeitlinger; montaggio: Joe Bini, Omar Daher; interpreti: Willem Dafoe, Brad Dourif, Chloë Sevigny, Michael Shannon, Michael Peña; produzione: David Lynch, Eric Bassett; origine: Usa, Germania 2009; durata: 93’


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