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Speciale Clint Eastwood: Mystic River

Pubblicato il 15 febbraio 2015 da Annalaura Imperiali


Speciale Clint Eastwood: Mystic River

Mystic River: un nome, un perché.

Non si tratta affatto di un film facile da analizzare; e questo sia perché fa capo ad uno dei più grandi cineasti, ancora in vita, della storia americana ed internazionale di tutti i tempi, sia perché il genere in cui poterlo inserire oscilla tra i toni del drammatico (il cavallo di battaglia del regista), quelli del noir (nel senso letterale del suo significato cinematografico: un sottogenere del giallo che, oltre al tema di un’inchiesta e all’ambientazione tipicamente cittadina, prevede forti contrasti di luci tra bianco e nero, utili a rappresentare simbolicamente il conflitto tra bene e male) e quelli del thriller vero e proprio (con tutta la sua carica di tensione volta alla risoluzione di un caso che tiene col fiato sospeso lo spettatore dall’inizio alla fine).

La trama si infittisce progressivamente nel corso di Mystic River, alternando il passato al presente.

Stati Uniti d’America, anni ‘60. Tre bambini, Jimmy, Sean e Dave, giocano sereni lungo una strada di quartiere quando quest’ultimo viene prelevato e portato via in auto da un uomo molto autoritario e da un altro losco individuo del cui aspetto – che richiama fortemente i volti dei carnefici nell’ultimo capolavoro pasoliniano tratto dall’opera del Marchese de Sade, Salò o le 120 giornate di Sodoma – rimangono impressi nella memoria il ghigno inquietante e l’anello del potere portato al dito mignolo della mano destra. Dave verrà violentato e poi riuscirà a fuggire. I suoi due compagni scampano alla stessa sorte…

Stati Uniti d’America, oggi. Dave, ormai uomo, ha un figlio che ama. I suoi due amici sono divenuti rispettivamente un poliziotto (Sean) e un commerciante dal taglio criminale (Jimmy). Un giorno la figlia diciannovenne di quest’ultimo viene trovata massacrata e i sospetti pian piano ricadono proprio sull’ex bambino violentato, fin quando le indagini portano alla luce una realtà tanto inaspettata, quanto tristemente amara nella sua ineluttabilità.

Il Mystic River, “fiume mistico” che dà il titolo all’opera di Eastwood e che, però, compare poco fisicamente e soltanto in una battuta finale di Sean Penn testualmente, trasmette una sorta di calma apparente con effetto catartico. Il gioco di equilibri che costruisce abilmente il regista, anche in questo caso, regala al pubblico una profonda analisi psicologica degli stati d’animo interiori, mettendo più in secondo piano i colpi di scena classici del genere crime. Clint Eastwood trova in Sean Penn e in Tim Robbins due interpreti ideali: da una parte un attore dalle qualità eccezionali che sa perfettamente calarsi nel ruolo di un padre dilaniato dal dolore per la perdita peggiore che qualunque genitore possa subire, la morte di una figlia; e dall’altra parte la freddezza spaventata e glaciale di un uomo dal passato straziante che ha paura perfino della propria ombra mentre cammina. Ma quello che colpisce ancora di più in Mystic River e che rende attento lo sguardo del cinefilo è la fotografia: quasi del tutto scevra da qualsiasi forma cromatica, fredda nelle sue tinte cupe e fatta di illuminazioni spesso monolaterali dei personaggi che vengono presentati nella sottolineatura del duplice potenziale, positivo e negativo, di ognuno di loro.

Alla luce della recentissima uscita dell’ultimo film di Clint Eastwood, American Sniper, una retrospettiva sul grande regista statunitense è d’obbligo. E, proprio per questo fatto, Mystic River – pur non essendo il suo capolavoro assoluto – si inserisce perfettamente nell’ambito dei film degni di nota nella corrente attuale della “New New Hollywood”, ovvero del cinema americano a partire dall’inizio del nuovo secolo ad oggi.



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