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Non aprite quella porta

Pubblicato il 19 dicembre 2002 da Alessandro Izzi


Non aprite quella porta

Sembra che il cinema del nuovo millennio non possa fare a meno delle apocalittiche visioni che avevano popolato i film degli anni ’80. Per questo, dopo il proverbiale Freddy versus Jason che riuniva in unico prodotto le due icone del genere orrorifico post Shining (il capolavoro di Kubrick è appunto del 1980) ecco ora affacciarsi sugli schermi la non meno mitica figura di Latherface, maniaco armato di motosega ed ispirato ad un serial killer realmente esistito che aveva ucciso ben trentatre persone. A differenza dei due precedenti eroi del cinema “taglia e squarta” che vantavano rispettivamente 10 (il Jason di Venerdì 13) e 7 (il Freddy di Nightamare) seguiti, il povero Latherface era riuscito a totalizzare nel lotto dei sequel soltanto un misero 4 (il secondo, a ben dodici anni di distanza dal primo episodio firmato nel 1974 da Tobe Hooper). Non stupisce, allora, che gli autori di questa nuova fatica cinematografica abbiano preferito ripartire da zero con un remake piuttosto che tentare la più insidiosa carta di un nuovo episodio di una serie che si era rivelata sicuramente meno redditizia di tante altre. The Texas Chainsaw Massacre (questo il titolo americano della vecchia pellicola e del più recente remake) torna, quindi, nuovamente sul grande schermo grazie alla regia di Marcus Nispel, autore di video musicali qui al suo debutto nel lungometraggio. È chiaro comunque, fin dalle primissime inquadrature, come il regista del nuovo film non voglia assolutamente porsi in posizione ancillare rispetto all’opera da cui prende spunto (opera che nel frattempo è diventato luogo di un culto accanito da parte di un non esiguo numero di estimatori dello splatter) ricercando, attraverso un lavoro sull’immagine ai limiti della patinatura pura e semplice, lo spazio per un discorso assolutamente personale. L’ossatura narrativa della vecchia sceneggiatura cofirmata dallo stesso Hooper viene generalmente rispettata. Ritroviamo, quindi, il consueto gruppo di teen ager/carne da macello imprigionati, loro malgrado, nei meandri di una sorta di città degli orrori e proiettati verso l’eliminazione fisica più cruenta e gratuita possibile. Ma ritroviamo anche la visione di una provincia americana fatta di atrocità più o meno palesi in cui la mostruosità si ammanta delle figure ambigue del bon ton e di una presunta “normalità” (il poliziotto padre e complice del mostro, la famigliola riunita nella roulotte col bambino rapito, ecc.). L’immaginario in cui scava Niespel è quello classico del cinema di genere, rinvigorito, com’è ormai abitudine, dalle consuete dosi di ironia e disgusto che tanto fanno la gioia degli adolescenti d’oltre oceano. Ed è da dire che il regista, per quanto non assolutamente a suo agio nello spazio dilatato di un lungometraggio di ben cento minuti, ha mano abbastanza felice nel generare la giusta dosa di suspence ed è capace di tenere avvinti gli spettatori (specie se non serbano un vivido ricordo del ben più complesso film del 1974). Lo dimostrerebbe ad abundantiam il fatto che sono stati 28 i milioni di dollari incassati nel primo week-end di programmazione negli States (17 in più del costo complessivo). Il problema del film (lo si evince proprio dal confronto ingeneroso con la pellicola di Hooper) sta semmai nell’incapacità del regista di spingere la visione oltre i limiti di un garbato discorso di genere. Nispel, infatti, non tenta né la strada del divertimento assolutamente fumettistico (una strada che sembrava voler prendere all’inizio, nella scena del suicidio della ragazza, quando la macchina da presa giocosamente compie una carrellata all’indietro nella scatola cranica della fanciulla attraverso il fumante foro del proiettile con una soluzione grottesca che tanto ricorda Sam Raimi), né quello dello splatter puro e semplice. La fotografia del film appare, in questo senso, troppo patinata, troppo incline alla ricerca della bella immagine, del giusto taglio di luce (notevoli, comunque, i boschi nella luce ambigua del primo pomeriggio), per risultare alla fine espressiva ed in linea con il contenuto della pellicola. Le immagini di Hooper erano, in questo senso, assolutamente squallide, il perfetto correlativo visivo di una realtà malata e lo stesso strazio dei corpi (portato avanti in sequenze ai limiti della tollerabilità fisica) assumeva una connotazione tutta politica in una società che faceva a pezzi le menti dei ragazzi con la stessa brama di sangue del maniaco protagonista. Qui Nispel sembra limitarsi a prendere atto del funzionamento di un meccanismo di genere perfettamente oliato. Ma il risultato finale appare lobotomizzato ed inerme come il ragazzo messo sotto sale (unica scena davvero notevole di un film dimenticabile) ed appesa all’uncino della nostra memoria collettiva.

(The Texas chinsaw massacre); regia: Marcus Nispel; sceneggiatura: Scott Kosar sulla sceneggiatura The Texas chainsaw massacre di Tobe Hooper e Kim Henkel del 1974; fotografia: Daniel Pearl; montaggio: Glen Sclantebury; musica: Steve Jablonsky, Mel Wesson; interpreti: Jessica Biel, Jonathan Tucker, Eric Balfour, Erica Leerhsen, Mike Vogel; produzione: Michael Bay, Mike Fleiss, Andrew Form, Bradley Fuller; distribuzione: Eagle Pictures

[dicembre 2003]

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