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Spazio della periferia urbana: epica e eterno ritorno nel cinema italiano

Pubblicato il 11 giugno 2018 da Veronica Flora


Spazio della periferia urbana: epica e eterno ritorno nel cinema italiano

"(...) Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.

Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. (...)"

Il pianto della scavatrice, Pier Paolo Pasolini, 1956

Al posto delle due camere e cucina, i piani sghembi di uno skatepark. Invece dei dialoghi estenuanti nel tinello, silenzi, maleparole e sguardi fissi nel vuoto dei parcheggi dei supermercati, tra casermoni con gli occhi e raptus di campagna. Non è più la borghesia a farla da padrone nell’immaginario sociale del cinema italiano (soprattutto in quello romano): la periferia è tornata.
Non che fosse mai scomparsa invero, protagonista di tanti film del neorealismo, primo fra tutti Ladri di biciclette, girato nei contrasti espressionisti dell’allora nascente quartiere romano di case popolari di Val Melaina, al Tufello.
I ragazzi di borgata assurgono a categoria morale nell’immaginario poetico e cinematografico di Pasolini, fatto di scavatrici e strade sterrate, a un passo dall’imminente cementificazione, figli di un’incontrollata speculazione edilizia, frutto o reminiscenza del boom economico che, in maniera abnorme, ha segnato alla cieca il volto della città, San Basilio, Piatralata, e il destino di generazioni e generazioni.
La propaggine urbana estrema abbacinata di una Roma che finiva nel mare, e nel male, viene fotografata in maniera definitiva a Ostia da Claudio Caligari in Amore tossico.
La bellezza naturalistica dai tratti mitologici e i retroscena agghiaccianti del Litorale Domizio. Le vele, monumento all’assurdo umano e architettonico di Scampia, immortalato da Garrone in quel viaggio agli inferi dell’Italia della camorra, dell’Italia dell’Italia, che è stato nel 2008 Gomorra.
L’aria è cambiata, la borghesia non è più quella di una volta, la soglia della povertà si è abbassata paurosamente, inghiottendo con la sua presenza e la sua ombra fasce sempre più ampie della nostra società, di quella classe media che ha vissuto per decenni l’illusione, fomentata dai permeanti modelli televisivi, di poter vivere in una costante aurea di salvezza intoccabile. I tratti sentimentali, oltre che spaziali, della periferia diventano di nuovo familiari al cinema. I precursori di questa poetica - scrittori, registi - sapevano che quelle costruzioni che nascevano a riempire ipertroficamente l’orizzonte, senza alcun riguardo per la dimensione umana di chi li avrebbe popolati, per chi li avrebbe vissuti, sarebbero diventate prigioni dell’anima del nostro Paese. Prigioni preventive di moltitudini di giovani condannati a un destino di reato, a un destino di autoesclusione dal mondo della legalità, dalla vita sociale. In Dogman c’è il mare in fondo, da qualche parte, nel sogno. Poi però c’è una sorta di arena, una corte circondata da palazzi in decomposizione, come l’incarnato dei volti deformi dei suoi abitanti, morti o ancora vivi che siano. Nei titoli di coda, tra gli sceneggiatori del film di Garrone campeggia la sempre più premiata ditta Fratelli D’Innocenzo. Avendo visto il loro esordio su grande schermo con La terra dell’abbastanza se ne riconosce l’odore. Nei corridoi del giudiziario a Rebibbia, vicino alla rete del penale, le braccia pompate, le ciglia assottigliate, i pantaloni calati sono gli stessi che ritrovi in strada mentre sono lì, ancora a un passo dal salto. Una vita di fatica, uno straccio di qualche tipo di titolo di studio tirato via, la ricerca disperata di un lavoro, per rientrare la sera a casa distrutti, vedere che non si arriva a fine mese, lo spazio domestico come un altare alla propria resa, ricettacolo di roba inutile e accecante, il paesaggio della periferia urbana che ti entra nelle pelle, nelle mani, nelle orecchie come il treno nell’orecchio di Mirko.
Ma una via di scampo c’è. La scorciatoia, baciata dalla fortuna o segnata dalla condanna inconsapevole di un padre. Lasciare l’ammorbo quotidiano della scuola, la languida inconsistenza della nuova formazione, per entrare in una banda. Fare cose elementari, facili, che può fare chiunque senza nemmeno aver studiato, come premere un grilletto, rifornire d’acqua e preservativi le ragazze sulla strada, menarle se serve.
E avere improvvisamente denaro, tanto denaro. Se sei drogato aiuta, perché non ti basta mai. Se non lo sei, puoi fare una cosa sola: cominciare a comprare cose e credere di poter comprare le persone. E non devi averla voluta per forza questa vita. Puoi farlo per inerzia, perché non c’è alternativa, non c’è rete, non ci sono strumenti di comprensione, nessuna rappresentazione umana della realtà alternativa che ti dica dove finirai senza scampo per quella strada, senza consapevolezza di un limite che non esiste ma si chiama consapevolezza dell’umano che si è e di cosa significa libertà. Libertà di essere povero ma di bastare a se stesso, padrone del proprio destino.
La periferia è un luogo. Di per sé non da ascolto, non da strumenti se sono assenti famiglia, scuola, comunità, stato.
E no, non è neanche come nelle serie americane: una persona, la tua persona, nemmeno quella persona può bastare, Manolo per Mirko e Mirko per Manolo. Perché alla fine, a fissare il baratro, si resta sempre da soli. Si muore, da soli.

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