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Piccole donne

Pubblicato il 7 gennaio 2020 da Veronica Flora
VOTO:


Piccole donne

Chi è cresciuto con la versione del ’49 di Mervyn Le Roy di Piccole donne non potrà dimenticare la varietà di chiome in technicolor delle sorelle March. Nella cornice di compostezza dei modi e della pur rassicurante messa in scena in stile american way of life trovavano spazi di fuga l’espressività sbruffona di Jo, la leziosità infantile di Amy (che preludeva alla futura prorompente femminilità della Taylor), la delicata fragilità vagamente aspergeriana di Amy, l’eleganza matronesca di Meg.
Le gesta casalinghe di queste ragazze a un passo dall’età adulta, tra piccoli peccati veniali e slanci di umanità - le scarpe strette e il vestito bruciacchiato, le bacchettate sulle mani e la caduta nel lago ghiacciato, tagliare i capelli per essere d’aiuto, malattia e morte quali fatti intrinsecamente legati alla vita - divenivano epiche.

Fu già uno shock l’arrivo negli anni ’90 della versione dell’australiana Gillian Armstrong dove l’attrice del momento, Winona Ryder, abbandonava il suo iconico taglio corto e blandamente grunge per interpretare il personaggio che tutte noi volevamo ancora essere.
Bellezza minuta deliziosamente imbarazzata, la Ryder riconfermava per Jo le già poco convincenti chiome indossate nella versione di Dracula di Francis Ford Coppola e sembrava non avere molto a che fare con l’immagine piena di vita, mascolina e sopra le righe proposta dalla enigmatica Audrey Hepburn della versione di George Cukor del ‘33.
Tuttavia, grazie a un’ambientazione dai toni più dimessi e un cast di stelle nascenti e non, da Christina Bale a Gabriel Byrne, al servizio della coralità della storia, la versione di Armstrong, forte di una Claire Danes-Beth vibrante nella sua sofferenza e una Kristen Dunst-Amy algida fino al midollo, riusciva a raccontare con la giusta gradualità il passaggio dai luoghi del conforto della moltitudine familiare a quelli della solitudine metropolitana, dal desiderio bruciante ma ancora informe alla presa di coscienza di sé, attraverso l’incontro con il mondo esterno e con l’altro, non più solo specchio riflettente ma nuovo orizzonte di scoperta della realtà, aspro quanto stimolante nel suscitare dubbi. Il trauma del distacco dal circolo degli affetti al quale Jo tornerà infine, perdendo ciò che è inevitabile perdere, le consegnerà uno sguardo di giusta distanza sulla ricchezza dell’immaginario delle proprie origini, che l’aiuterà a trasformare lo struggimento nostalgico in vis creativa, a diventare individuo adulto, donna.

Rispetto a questa complessità sa un po’ di retorica contemporanea il "voglio tutto" che sembra gridare al mondo la Gerwig con la sua versione di fine millennio del romanzo della Alcott. La regista, da tempo in odore di consacrazione mainstream, ha probabilmente pensato non ci fosse occasione migliore per raggiungere tale traguardo che metter mano a uno dei classici letterari sulla sororanza femminile più amati dal grande schermo e rileggerlo in forma di nuovo manifesto del girl power.
Ecco allora la regista mettere in scena l’ennesima danza delle quattro sorelle March, frutto di un casting internazionale concepito a sua immagine e somiglianza, con cariche complementari e oppositive elevate all’ennesima potenza e fuse in un unico, elettrico e scompigliato intreccio di capelli.

Le qualità specifiche delle protagoniste tendono a omogeneizzarsi, riflesso di acconciature variazione di un medesimo color “can che fugge” (nel mondo ipercinefilo-indipendente della Gerwig, si sa, si fugge sempre da qualcuno o da qualcosa, purché un carrello in(segua) lungo le strade ribollenti di una grande città).
Oltre alla tinta sono gli stati d’animo a diventare interscambiabili e a convergere verso l’aurea del personaggio prediletto dalla Gerwig come da generazioni di aspiranti scrittrici con un debole per l’autobiografismo spinto: quella Jo esagerata e incontenibile, ribelle e audace, impulsiva e determinata, solitaria e aggregatrice, sgangherata eppure, al momento giusto - questo sembra puntualizzare sin dall’inizio la regista - saggia pianificatrice del proprio futuro (nonché abile stratega in erba del mercato editoriale).
E’ in questo ultimo tratto che sembra farsi chiara la scelta di Greta: nel punto di contatto solo apparentemente accidentale quanto invece profondo della protagonista con quell’alter ego del disimpegno rappresentato dalla piccola Amy. Il legame di attrazione-repulsione tra le due sorelle, esplicitato nell’intreccio di relazioni prima con la Zia March poi con Laurie, è un determinante perno narrativo già nel romanzo, dove serve alla scrittrice a dare maggior corpo alla figura della protagonista rispetto al contesto sociale dell’epoca.

Ma la Gerwig sceglie di mettere in evidenza questa relazione nei suoi effetti osmotici più spinti e alla brutalmente realista Amy regala per tutta la durata del film un ampio e sostenuto primo piano, o quello che potremmo definire non impropriamente un “selfie” ante litteram, anche grazie alla interpretazione ficcante della nascente stella inglese Florence Pugh.
Se ascoltiamo lo spirito dei tempi, sembra dirci la Gerwig, la nostra amata Jo potrebbe non bastare più ma questo potrebbe non essere necessariamente un male.
Non che Jo sia da principio una combattente attiva per chissà quali traguardi di eguaglianza sociale (come i genitori). Più dedita a perseguire la propria affermazione individuale, si fa tuttavia naturale incarnazione agli occhi del lettore di una vento di cambiamento all’interno di una società che non sembra dare ascolto alla voce di minoranze, quale quella delle donne nell’America di metà ’800. Con il tempo, la nostra troverà il modo di lavorare ulteriormente sul suo spiccato personalismo, attraverso la ricerca di una scrittura più introspettiva e universale e la scoperta della vocazione educativa.

Per la ragazza il percorso verso una nuova consapevolezza di sé, al di là di se stessa e del suo mondo, non sarà indolore, sia che venga letto come rinuncia all’immaginario standard di affermazione femminile corrente (leggi buon matrimonio), che inevitabilmente condiziona il mondo suo e delle sue sorelle, sia che venga rivendicato come orgogliosa scelta di vita alternativa. Ed è ciò che la rende diversa da Amy e la fa essere vessillo di quella "libertà responsabile" fondata sul rispetto della propria dignità e su quella degli altri, letto come insegnamento massimo di Piccole Donne dall’appassionata lettrice Patti Smith.
Ma la scelta di Jo non soddisfa il “voglio tutto” della Gerwig dove la figura di Amy riemerge vigorosamente, in uno specchio riflesso con la sorella, trovando una sua verità e bellezza nella talora spregiudicata e vivamente contemporanea ambizione del "I want to be great or nothing".
Il “voglio tutto” della Gerwig significa domandarsi se il migliorare se stessi, non esclusivamente legato a fini meramente utilitaristici e di arricchimento, sia poi un valore ancora attuale e comprensibile dalle nuove generazioni. O se il modello Amy che, sulla scia dell’insegnamento della zia, cerca l’accasamento migliore (sebbene, oltre che per un innegabile appagamento personale, anche per la consapevolezza di dover finire per mantenere una famiglia di squattrinati filantropi) ha forse qualcosa da dirci e di più su questi anni.
E il "voglio tutto" ha anche una resa formale e significa scegliere un flash back insistito e alla lunga stancante come unica via a effetto per ricucire i lembi di una storia già di per sé stratificata e farli collimare in una riscrittura tesa a far rientrare i bordi di un’insoddisfazione umana che nel romanzo della Alcott sta a ricordarci che la perdita è parte della vita. Voglio tutto è rinunciare, mai del tutto fino in fondo, a Timothy Chalamet per poi trovarsi Louis Garrel come alternativa. Voglio tutto è l’improbabile scena di isterismo collettivo con cui Amy e Meg, nel crescendo del finale ridotte a figurine, accompagnano Jo all’incontro con il professore come due liceali qualsiasi in limousine alla festa dei diciotto anni.
Voglio tutto è l’affresco slow motion del futuro nella scena di chiusura, in montaggio parallelo con la descrizione pleonastica del processo di pubblicazione del romanzo. Ancora l’amato carrello a creare enfasi artificiale sullo schermo per un vita raccontata sulla carta con asciutta semplicità.


CAST & CREDITS

(Little women); regia: Greta Gerwig; sceneggiatura: Greta Gerwig; fotografia: Yorick Le Saux; montaggio: Nick Houy; musica: Alexandre Desplat; interpreti: Emma Watson, Saoirse Ronan, Timothée Chalamet, Florence Pugh, Eliza Scanlen, Laura Dern, Meryl Streep, Bob Odenkirk, Chris Cooper, Louis Garrel, James Norton, Abby Quinn, Tracy Letts; produzione: Columbia Pictures, Regency Enterprises, Pascal Pictures, Sony Pictures Entertainment; distribuzione: Warner Bros.; origine: USA, 2019; durata: (esempio) 135’


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