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Honey boy

Pubblicato il 2 marzo 2020 da Veronica Flora
VOTO:


Honey boy

La depressione è spesso legata alla memoria di una presenza, più o meno nascosta tra le pieghe del passato. In alcuni casi si tratta di una presenza agente e identificabile sin dall’inizio, a volte è volontà in potenza, le cui tracce è necessario inseguire per anni solo per poter riuscire a enunciarne il nome. A volte, coincide con quella stessa presenza, come quella che aleggia in Honey Boy, seduta psicoanalitica a schermo aperto, che porta la firma dichiaratamente autobiografica di Shia LaBeouf.

Piccolo divo della tv, attore di film di successo e di riuscite incursioni nella frontiera indipendente, come nel cinema d’autore, LaBeouf sente l’urgenza di aggiungere un piccolo tassello creativo all’indagine di una vita sulle radici della propria esistenza tormentata e del malessere latente che sfocia troppo spesso, nel corso degli anni, in intemperanze di vario genere. Le terapie suggeriscono la scrittura, nel suo caso, dalla naturale aspirazione all’immagine in movimento.
Il cinema tuttavia è scelta meno facile di quanto sembri, perché dentro a un film Shia è sempre vissuto. Tra un set e l’altro ha provato a far spazio a un’infanzia e un’adolescenza che milioni di ragazzini, dallo schermo di Disney Channel, gli hanno di certo invidiato mentre rimanevano schiacciate tra l’imitazione della vita e l’inferno reale di una famiglia disfunzionale, incapace di tutelarne i diritti di bambino quanto perfettamente in grado di riversare su di lui la miscela letale di forme confuse di amore e frustrazione, possesso e protezione, mortificazione di sé e desiderio di riscatto attraverso l’altro.
Il cinema è lo spazio dove si è consumato il dramma di una vita, il cerchio magico entro il quale Shia e il suo alter ego bambino recitano scene di una finzione di ottima fattura che sempre più ricalca e stride, in gioia e autenticità, con quelle reali che lo aspettano fuori, appena voltato l’angolo delle scenografie.

Il film, diretto dalla regista israeliana Alma Har’el, che sa lasciarsi ispirare felicemente dalla letteratura delle sue origini che del rapporto tra coming of age e pressioni famigliari ha fatto la sua cifra, gioca tutto sul doppio. Un doppio che si moltiplica infinitamente. Le pareti del set in cui Shia è trattato da bambino, con il rispetto che si deve agli adulti con un contratto come il suo, sono solo più grandi di quelle dell’appartamento scatoletta che condivide con il padre. Una madre che esiste solo al telefono al posto di una in carne ossa che lo stringa a sé con la tenerezza disinteressata con cui lo accoglie la giovane prostituta. E il padre soprattutto, clown fallito, tossicodipendente con precedenti penali, manager pagato dal figlio, interpretato da LaBeouf stesso, che non risparmia nulla, a se stesso e al pubblico, del vortice di miseria e dolore che ne fanno l’adorato carnefice del futuro giovane Indiana Jones.

Amore nella crudeltà, amore nella violenza, l’amore nel furtarello osceno dell’età. Amore nell’esserci, amore nel giocare, amore nell’abbraccio in moto, amore nell’odiarsi e continuare a distruggersi per quello che si è fatto o non si è capaci a fare. Nello specchio, Shia lascia che il suo volto e quello del padre si sovrappongano e cerca di andare fino al fondo dei momenti in cui l’amore si avvelena, si mischia al fallimento, al disprezzo di sé e dell’altro, alla perdita di senso dell’esistenza, sempre dentro un tenace calore umano, calore di unione, mentre all’altro da sé, ancora piccolo, lascia il sollievo di un respiro flebile ma presente. Una forma intatta e lucente di innocenza salva.
Shia lo sa che quella purezza cresciuta all’ombra della maledizione, da essa inscindibile, sopravvive e vibra nel suo gesto artistico. Attore, autore, questo si vedrà.


(Honey Boy); Regia: Alma Har’el; sceneggiatura: Shia LaBeouf; fotografia: Natasha Braier; montaggio: Dominic LaPerriere, Monica Salazar; musica: Alex Somers; interpreti: Shia LaBeouf, Lucas Hedges, Noah Jupe, Byron Bowers, Laura San Giacomo, Natasha Lyonne, Maika Monroe, FKA Twigs, Clifton Collins Jr., Martin Starr, Mario Ponce; produzione: Automatik, Delirio Films, Kindred Spirit; origine: USA, 2019; durata: 95’


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