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O come Otello

Pubblicato il 22 settembre 2002 da Alessandro Izzi


O come Otello

Avrebbe dovuto intitolarsi J come Jago, quest’ultimo film di Tim Blake Nelson! Contrariamente a quanto riportato nelle pagine del capolavoro shakespeariano, infatti, l’intero intreccio della tragedia viene qui riletto completamente attraverso gli occhi di questo personaggio sfuggente ed ambiguo, mentre Otello e Desdemona vengono sostanzialmente ridotti al rango di mere pedine della sua macchinazione satanica e perversa. Comunque, nel suo prendere il sopravvento sugli altri personaggi della tragedia, la figura di Jago deve, necessariamente, perdere l’aura indeterminata e simbolica che aveva nel testo teatrale, per assumere fattezze più umane e appropriarsi, in questo modo, di una propria storia personale entro cui il pubblico, specie quello più giovane, abbia possibilità di riconoscersi. Per questo, in barba alle chiare non-indicazioni di Shakespeare che, a bella posta, taceva ogni dettaglio su questo personaggio fantomatico, motore primo di tutto l’intreccio, per renderlo così ambiguo e aperto ad ogni possibile interpretazione (psicanalitica, poetica, mitica e chi più ne ha più ne metta), lo sceneggiatore e il regista si adoperano, invece, in mille modi per fornirgli un ben preciso back-ground psicologico. Jago (che muta inspiegabilmente il suo nome in Hugo) diventa, così, il figlio insoddisfatto di un allenatore di Basket (uno stinto Charlie Sheen), perennemente alla ricerca di un qualche gesto di affetto da parte di un padre che, pur amandolo distrattamente, non ne capisce fino in fondo le esigenze e i reali bisogni. Il desiderio costantemente inappagato di un riconoscimento sentimentale da parte dell’amatissimo (ed idolatrato) genitore finisce per portare il ragazzo all’interno di una sorta di circolo vizioso psicologico, mentre l’incapacità a distinguere tra bene e male (una delle malattie, pare, più diffuse tra le nuove generazioni statunitensi: viziati rampolli di un meccanismo consumistico senza valori) lo portano a nutrire un vero e proprio odio incondizionato verso chiunque riesca a catalizzare, sia pure brevemente, l’attenzione del padre. In questo modo, però, la sua sete di vendetta, consumata solo parzialmente e senza alcuna reale soddisfazione dal momento che non va mai realmente a colpire la vera fonte del suo malessere, perde le connotazioni mitiche che aveva nella tragedia shakespeariana, per diventare più quotidiana e, sostanzialmente, meno potente. E ha un bel daffare il pur volenteroso Josh Hartnett (l’attore che lo impersona) a cercare di riportare le sue azioni nel solco di una malvagità immotivata e brutale (come nella migliore tradizione teatrale del suo personaggio), perché le motivazioni del suo agire sono a tal punto chiare in tutti che si è quasi portati a simpatizzare con lui. Ed è qui sostanzialmente il punto debole di tutta l’operazione: il suo restare sempre in pericoloso bilico tra il rispetto per la tradizione del testo da cui si prende quasi religiosamente spunto, e il bisogno di affrontare un discorso originale e fortemente puntato sulla contemporaneità. Come ritratto delle nuove generazioni, in effetti, il film funziona e mette insieme una serie di spunti interessanti e validi (anche se alcuni aspetti, come i conflitti razziali, appaiono un po’ di superficie), ma risulta decisamente meno convincente quando tenta di seguire fedelmente il dettato shakespeariano. La parte migliore la troviamo nel finale, con il teatrale omicidio di Desdemona fatto urtare dal montaggio, con i delitti più realistici di Hugo, ma quando Otello/Odin prende parola per il suo monologo finale, il tutto scivola inesorabilmente nel ridicolo. In complesso il personaggio che soffre di più in questa operazione è proprio quello di Desdemona che finisce per perdere il candore ideale che aveva nel testo shakespeariano (le viene sottratta anche la bellissima scena in cui si auto accusa, morente, del suo stesso delitto per salvare l’amato Otello). Non si capisce, allora, perché il regista abbia deciso di aprire e chiudere la pellicola con le sublimi note dell’Ave Maria che il personaggio canta nell’Otello di Verdi poco prima del delitto e che sono la perfetta sintesi di questo candore celestiale. Una velleità che, in fondo dispiace in un film governato efficacemente (anche se in maniera risaputa e già vista) da ritmi rap ed Hip-hop.

(O); Regia: Tim Blake Nelson; Sceneggiatura: Brad Kaaya; Fotografia: Russell Lee Fine; Montaggio: Kate Sanford; Musica: Jeff Danna; Interpreti: Mekhi Phifer, Josh Hartnett, Julia Stiles, Andrew Keegan, Rain Phoenix; Produzione: Daniel Fried, Eric Gitter, Anthony Rhulen; Origine: Usa, 2001; Distribuzione: Eagle Pictures

[settembre 2002]

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