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Oltre il corpo. Metafisica e Rivoluzione in Children of men

Pubblicato il 27 novembre 2006 da Alessandro Izzi


Oltre il corpo. Metafisica e Rivoluzione in Children of men

In un film come Children of men così profondamente ossessionato dall’impiego costante del piano sequenza e dal terrore quasi panico per gli stacchi di montaggio, due sono, alla fine, le inquadrature paradossalmente più significative.

La prima la incontriamo quasi all’inizio del film, quando il gruppo di terroristi si è da poco messo in viaggio e finisce nell’agguato nel quale perde la vita Julian Taylor. La macchina da presa non stacca neanche per un momento di fronte al susseguirsi frenetico degli eventi e, nella notevole concitazione dell’inseguimento e della fuga, rincorre, tra movimenti a schiaffo e primi piani traballanti, ogni singola reazione nel microcosmo della macchina assediata, come in un vecchio western, da non distinguibili indiani. La morte interviene, nel corpo della narrazione, come mero accidente, mentre lo sguardo del regista, che rincorre i tratti salienti del racconto, quasi si sorprende nel cogliere, con la coda dell’occhio, il momento topico del trapasso di uno dei personaggi principali, l’attimo catartico in cui la persona diventa corpo, cadavere.
Il piano sequenza, nella sua brutalità documentaristica che amplifica l’impressione di realtà e la rimanda ad uno spettatore troppo anestetizzato alla violenza dalla dimensione finzionale del montaggio cinematografico, si priva di ogni consolazione metafisica e trasforma gli eventi ripresi in meri accidenti.

La seconda sequenza è, invece, già verso la fine del film, quella del parto: la rappresentazione dell’evento eversivo di una nascita in un mondo che non conosce più il miracolo del riso di un bambino.
Questa volta la macchina da presa, tra le anonime mura di una nuova versione della stalla di Betlemme, senza neanche la distrazione dello sguardo di un asino e di un bue come nella tradizione presepiale, ha tutto il modo di concentrarsi sui due soli personaggi protagonisti dell’evento: Theodore e Kee. La mancanza di stacchi di montaggio garantisce, comunque, anche in questo caso, la possibilità di centrare l’attenzione dello spettatore sull’evento, obbligandolo a seguire, senza mai interrompere sia pure per un solo momento, sia le reazioni frenetiche dell’uomo palesemente incerto sul da farsi, sia i dolori lancinanti della donna in travaglio. Sempre con la coda dell’occhio, quasi di sfuggita, la macchina da presa si insinua, poi, nel momento fondamentale dell’espulsione del piccolo arrivando a cogliere, in perfetta specularità con la prima sequenza di cui abbiamo appena parlato, il momento fondamentale in cui il feto diventa bambino e si fa persona.

Il mistero della Morte e il miracolo della nascita sono, quindi, accomunati da uno stesso gesto registico (la definizione di un piano sequenza, appunto), mentre la macchina da presa di Cuaron (uno dei registi più consapevoli della sua generazione), mentre ci dà l’impressione di usare il cinema per una sua personale ricerca di realismo estremo (magari anche un po’ autocompiaciuto dei suoi mezzi e della sua palese maestria), affonda, in realtà, il suo sguardo oltre quella stessa realtà in cerca di una nuova metafisica.
Il mondo descritto da Cuaron è un mondo frazionato, un mondo che fa della divisione, della separazione le sue cifre distintive. Un mondo conflittuale, dove le varie realtà sociali sono perennemente poste in stretta rotta di collisione e dove l’eplosione violenta dei conflitti latenti sembra essere all’ordine del giorno. Ma soprattutto è un mondo che, colpevole anche il tripudio del meccanismo televisivo che ha definitivamente invaso ogni interstizio della realtà e dello sguardo che la coglie, ha dimenticato il significato e il valore anche eversivo del Corpo.
Un po’ come in Fahrenheit 451 di Truffaut, anche in Children of men l’uomo si è fatto monade isolata, incapace di portare avanti un percorso relazionale con gli altri, incapace di comunicare e di esternare. Anche un semplice viaggio in autobus (nella più diretta citazione al capolavoro del regista francese che metteva in scena un’identica società fatta di solitudini e silenzi e dove il solo contatto sembrava essere quello autoerotico) rivela le cifre di un segreto viaggio negli inferi dove alla desolazione dello spazio esterno (composto di disperati piani lunghi su realtà degradate o sulle gabbie dove vengono confinati gli extra comunitari) si accompagna la profonda mestizia dei viaggiatori persi nei loro pensieri e nelle loro (poche) fantasie. L’impossibilità della società del futuro di mettere al mondo altri bambini è sintomo proprio di questo progressivo "dimenticarsi" dell’individuo della propria corporalità, mentre la realtà politica inglese (per estensione occidentale) punta la sua azione nella divulgazione dei kit del dolce suicidio, tramite i quali la coscienza può definitivamente e dolcemente staccarsi dal fardello di un corpo che non si è più in grado di conoscere davvero.

I piani sequenza che affollano la complessa macchina filmica messa in moto da Cuaron, se da un lato sembrano partecipare della logica della messa in immagine del mondo del reality show (anch’esso fondato sulla ripresa oggettiva e senza stacchi del contingente), dall’altro rivendicano, ad ogni passo, la dimensione rivoluzionaria dell’essere al mondo del Corpo. E, senza mediazioni, lo sguardo del regista coglie di questa nuova metafisica del corpo (lo spirito attraverso la carne e non malgrado essa) anche gli aspetti più spiacevoli, quelli in cui non si può negare in nessun modo la dimensione carnale e deperibile degli individui. In una perfetta coerenza interna visto che Y tu mama tambien era un film sulla magnificazione giovanile e sfrontata del corpo e del sesso.

Nascita e morte, proprio nel momento in cui ci vengono restituiti allo spettatore come accidenti, come meri eventi, rilanciano, nella loro specularità scandita dal regista, una dimensione "altra". Sono epifanie per un mondo che si è abituato troppo alla seconda e ha perso memoria della prima. Ed è in questo estremizzazione degli opposti che assume senso la lunga splendida scena in cui la guerra si interrompe stupefatta per ascoltare l’arcano del canto di un bambino. Solo per pochi secondi, ci dice disincantato Cuaron, ma con un gesto di speranza a fronte di un presente che, già oggi, non riesce neanche a fare questo.

[Novembre 2006]


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