X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Oscar 2004: un bilancio

Pubblicato il 8 marzo 2004 da Alessandro Izzi


Oscar 2004: un bilancio

Alla fine è successo! Come l’intera Terra di Mezzo ha dovuto inchinarsi di fronte all’eroismo e al senso di sacrificio di quattro piccoli hobbit, allo stesso modo l’Industria hollywoodiana ha dovuto chinare il capo davanti alla dedizione e al genio di un regista che è stato capace di ridisegnare e donare un nuovo senso all’idea stessa di fantastico.
A contatto con la genuina carica affabulatoria di un film che si prende tutto il tempo necessario per sognare, dinnanzi alla grandiosità dell’affresco e alla cultura iconografica sterminata e sincera di un mega film come Il Signore degli anelli (e non solo Il ritorno del re), la Mordor cinematografica del block buster standardizzato è, alla fine franata come in un sogno che riesce, miracolosamente, a tracimare nella realtà. 11 candidature, 11 premi. Alcuni necessari (miglior film, miglior regia, miglior montaggio, migliore colonna sonora, migliore canzone), altri trasportati dall’onda emotiva (migliore sceneggiatura), altri ancora scontati (migliori effetti visivi, miglior sonoro). Dire che è stato un trionfo non ci sembra renda giustizia a quanto abbiamo visto stanotte anche se è da dire che, dopo la magra dei due anni e dei due film precedenti un pienone di tale fatta era a dir poco necessario a meno di non voler far perdere del tutto la stessa credibilità del premio.
E dirlo non renderebbe giustizia anche perché è da rimarcare con ammirazione il fatto che Peter Jackson sia riuscito, in un sol colpo, a stracciare definitivamente uno dei più vecchi tabù dell’Oscar: quella legge non scritta che prevedeva che nessun film di genere fantastico potesse ambire realmente alla statuetta di Miglior film.
Invece il regista (Autore) neozelandese c’è riuscito in pieno, ha vinto su tutti i fronti sfidando ogni convenzione (un film di dodici ore diviso in tre capitoli non autonomi) e superando ogni ostacolo.
Ed è un piacere, per una volta, vedere come la politica cerchiobottaia tipica dei membri dell’Academy (della serie un premio a ciascuno non fa male a nessuno e accontenta un po’ tutti i palati) abbia dovuto cedere il passo ad un riconoscimento dovuto anche se molti film candidati avrebbero meritato qualcosa di più.
Non parliamo tanto del iper sopravvalutato Seabiscuit che non ha portato a casa nulla se non le sue sette nomination, ma parliamo soprattutto del bellissimo Master and Commander di Peter Weir (l’unico vero rivale de Il Signore degli anelli) che ha incassato solo due premi di cui uno solo (quello per la Miglior fotografia) maggiore.
Anche il grande outsider della stagione, il notevole Lost in translation di Sofia Coppola, si è dovuto accontentare del solo (eppur prestigioso) premio per la Migliore sceneggiatura originale: un po’ poco per un film che riesce miracolosamente a creare un punto d’incontro tra la pensosità del cinema d’autore europeo e la migliore tradizione della commedia sofisticata americana. Confessiamo che ci avrebbe fatto piacere vedere premiato anche l’istrionico Bill Murray, magari ex-aequo con l’intenso Sean Penn di Mystic River (poi trionfatore della sezione), ma ben sappiamo come l’Oscar (trionfo dello spirito competitivo di stampo marcatamente occidentale) sia allergico ad ogni forma di pareggio.
Forse, messo di fronte al fatto compiuto della valanga di premi che doveva ricoprire il film jacksoniano, i membri dell’Academy si sono fatti, alla fine travolgere dalla prevedibilità per tutte quelle sezioni nelle quali Il Signore degli anelli non competeva. Per cui se pure ci sembrano dovuti i due premi alle interpretazioni maschili di Mystic River di Clint Eastwood (film che avrebbe meritato di più), il premio al Miglior film Straniero assegnato a Le invasioni barbariche ci sembra una mossa calcolata con troppo anticipo farcendo la sezione con nomination un po’ fasulle (solo il film giapponese poteva, di fatto sperare di competere), mentre il premio a Charlize Theron per Monster sembra sottostare al solito ricatto della diva che si imbruttisce per amore dell’arte e della Parte (ma non era meglio premiare Diane Keaton?). Da questo punto di vista l’Oscar per la Zellwegger ci sembra un puro e semplice risarcimento per la mancata vincita della scorsa edizione (tra parentesi: è l’unico Oscar vinto dal bolso Ritorno a Cold Mountain, polpettone pacifista cui pure non manca qualche momento di genuino fascino).
Gioia, infine, per l’Oscar alla carriera tributato al grandissimo Blake Edwards.

PS Per una serata in fondo piuttosto noiosa ci piace ricordare solo il rocambolesco premio alla carriera assegnato da un Jim Carrey ad un Blake Edwards scatenato con tanto di sedia a rotelle. Se il premio per il miglior discorso di ringraziamento va a Le invasioni barbariche (“ringraziamo Il Signore degli anelli di non essersi candidato anche per questa categoria”), quello per il momento più genuino va alla cosegna del Premio per il Miglior film con tutti (cast and crew) sulla pedana a circondare il regista (per una volta vestito in un poco confortevole smoking): tributo di gruppo per un film d’autore quanto mai collettivo.

[marzo 2004]


Enregistrer au format PDF