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Oscar 2006: Considerazioni a caldo

Pubblicato il 6 marzo 2006 da Alessandro Izzi


Oscar 2006: Considerazioni a caldo

Alla fine Hollywood non smentisce se stessa. Lo spirito reazionario, la volontà di trovare sempre delle soluzioni di comodo che possano, in un modo o in un altro suonare “politically correct” sono, infatti, gli elementi che hanno guidato ancora una volta le mani dei giurati dell’Academy award nella compilazione delle proprie schede e nell’assegnazione, alla fine, dei premi più ambiti dell’industria cinematografica.
Certo da più parti già si comincia a parlare di sorpresa (sconfitto, per la categoria miglior film il favorito alla vigilia Brokeback mountain al quale si è preferito il pur notevole Crash - contatto fisico), qui, nell’italica provincia dell’impero americano già spunta qualche titolo sulla delusione (sic!) per la sconfitta, nella categoria miglior film straniero, di La bestia nel cuore di Cristina Comencini (superato alla fine, ed a ragione, dal sud africano Tsotsi), ma sembra passare per tutti in secondo piano che il presunto equilibrio olimpico con il quale sono stati assegnati i premi nasconde precise e spesso bieche logiche cerchiobottaie che sono volte alla rimozione di tutto ciò che è scomodo o apparentemente scorretto.
In una cerimonia che non ha avuto il coraggio di indicare dei reali vincitori ad essere sconfitto è stato prima di tutto il senso del rischio e la voglia di andare davvero contro le aspettative.
Tra le cinque pellicole candidate alla categoria Miglior film, Crash era quella che, pur nella sua scomoda visione dei rapporti interrazziali, riusciva a sciogliere ogni contraddizione politica in una visione esistenziale e filosofica ulteriore. Un film bellissimo nella sua coralità altmaniana e nella sua amarezza sconfinata, ma che permette ancora un’adesione tutta di superficie di problemi e realtà che si può ancora far finta pensare che riguardino altri. Non tocca, insomma, quelle coscienze borghesi che non vogliono esserne toccate.
È quantomeno ironico, per non dire contraddittorio, che un film così altmaniano nella forma (un po’ meno nello spirito) trionfi nella stessa notte in cui viene assegnato al grande decano della storia del cinema americano un risarcitorio premio alla carriera. Come a voler sancire, tra le righe, l’avvenuta morte dell’autore, la sua avverata incapacità di incidere ancora sul reale (come ai tempi di Nashville, e poi di America oggi) e, al tempo stesso, il suo essere definitivamente diventato figura scolastica, modello da imitare e copiare e, quindi, realtà autoriale innocua, consegnata per sempre al mito e ai libri di testo.
Ne escono sconfitti, alla fine, il bellissimo Good night and good luck che ha uno sguardo troppo critico sulle responsabilità della televisione (e, quindi, per estensione, di tutta l’industria della comunicazione e dello spettacolo) e Munich (il cui disperato anelito di pace super partes non poteva in alcun modo essere tollerato da una realtà americana ormai votata alla guerra perenne). Vale a dire i due film più politici della cinquina dei nominati e i due film che, alla fine, significativamente, non portano a casa neanche una statuetta a fronte delle poche nominations ricevute.
Ne esce sconfitto, incredibilmente, anche Brokeback mountain che, pur portandosi a casa il premio per la miglior regia, per la miglior sceneggiatura non originale (scippando il premio al nostro favorito Match point di Woody Allen) e per la miglior colonna sonora, non riesce davvero ad avverare la sua utopica rivolta dall’interno imponendo all’industria un film classico nella forma, ma sovversivo nei contenuto, un’opera che affronta una storia d’amore omosessuale trattandola, finalmente, come realtà naturale anche se condannata, dall’ostilità del mondo circostante, alle sofferenze del melodramma.
Non è un caso, allora, che ad essere premiato come attore sia stato Philip Seymour Hoffman che, interpretando il personaggio dello scrittore omosessuale Truman Capote, cede ancora alle lusinghe di un’interpretazione affettata ed effettistisca tutta mimesi fisica che non le rabbiose e contratte interpretazioni dei due protagonisti maschili di Brokeback mountain Heath Ledger e Jake Gyllenhaal (quest’ultimo almeno meritava davvero la statuetta che gli è stata scippata malamente da George Clooney premiato come attore, ma non come autore). Segno questo che pare esserci ancora un po’ di imbarazzo, in quel di Hollywood, nell’affrontare il tema dell’omosessualità soprattutto quando questa non viene trattata in modi scontati, macchiettistici e abbondantemente standardizzati.
Concludiamo dicendo che se riteniamo quanto meno saggio non aver premiato il presupponente film della Comencini è davvero ancora uno scandalo che Tim Burton non abbia ancora vinto un Oscar per le sue fantasmagoriche visioni. Uno scandalo che ci porta all’amara considerazione che, alla fine, il diverso, il freak, l’altro (sia sessuale che cinematografico che culturale) non ha ancora casa a Hollywood. Suo destino è finire sempre incompreso come i personaggi dolenti di Crash.


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