X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Partitura P - Uno studio su Pirandello

Pubblicato il 7 aprile 2015 da Alessandro Izzi


Partitura P - Uno studio su Pirandello

Si potrebbe quasi dire, a volersi imbarcare in quei paralleli musicali che sono suggeriti sin dal titolo, che Partitura P sia un vero e proprio Trio.
Del Trio conserva le suggestioni, la dimensione cameristica e l’impressione di intimo e affettuoso colloquio tra gli esecutori. Ma del Trio (soprattutto di quello romantico e tardo romantico) ha anche le ambizioni filosofiche, le profondità abissali e quel bisogno di struttura che sappia dare un senso alle nostre misere esistenze.
Soprattutto, nello spazio franco delle cose di per sé evidenti, del Trio Partitura P ha la formazione composta da Attore, Musica e Luce: tre strumenti diversi per dare vita a un unico intreccio, a un vasto e dolente contrappunto sul pensiero pirandelliano.

Delle tre la Luce è quella che più lavora per sottrazioni. Non rivela, ma nasconde. Gioca, piuttosto, a rimpiattino con le aspettative del pubblico e lo spiazza nella sua lineare semplicità.
In Partitura P, la Luce (disegnata da Daniele Ciprì) serve prima di tutto a disegnare il buio astratto che circonda pubblico e attore. Il personaggio, privato di una sua consistenza intrinseca, più che scolpito si trasforma in evocazione. È un’apparizione che ha la stessa densità e la stessa dolorosa evanescenza di un fantasma. Ci colpisce per la sua impressione di vita che ci fa da specchio rivelandoci le nostre stesse miserie.
Con il suo debole controluce bluastro, cui lascia qualche sporadico assolo di follia notturna memore dei tanti chiari di luna del sommo scrittore agrigentino, non disegna volumi troppo ingombranti, ma stacca l’attore dal fondo quel tanto che basta per lasciarlo a metà tra il nostro mondo e un altrove spaventoso perduto in mezzo al buio. Da parte loro tre (di nuovo questo numero) tagli di luce isolano tre spazi, mentali come tutto il resto.
Il primo, quasi in proscenio, è lo spazio del dialogo diretto con il pubblico che è lasciato in poca luce nel primo e nel terzo tempo di questo vero e proprio concerto scenico. Il secondo, in centro palco, sta attaccato ad una sedia (unico oggetto di scena di tutto lo spettacolo) ed è lo spazio del dramma e della confessione, quello del racconto, ma anche quello della maschera nuda. Il terzo, sul fondo, quasi al limite della scatola nera della scena, è il confine con un altrove sconosciuto che tenta e spaventa. È dove vorrebbe andare l’Uomo dal Fiore in bocca, un momento prima del commiato definitivo dalla scena, ma è anche il nulla da cui giunge il protagonista di Una giornata, spaesato e senza altra identità che quella che gli attaccano addosso le persone che incontra.
In un certo senso è, questo limite, un marciapiede sul binario invisibile attraversato da quel treno che è una sorta di protagonista occulto di tutta Partitura P o, se preferite, la tonalità di impianto dell’intera partitura.
Il treno, sia quello che perde l’avventore di L’uomo dal fiore in bocca, sia quello da cui viene letteralmente sbattuto fuori il protagonista senza nome di Una giornata, sia, infine, quello che fischiando segna la resa alla follia del protagonista di Il treno ha fischiato, diventa così potente metafora di un’esistenza inconsapevole, di una vita trascorsa senza l’ansia di vedersi vivere. È la vita delle persone semplici, che non si rendono conto di essere uno, nessuno e centomila. È la girandola delle esistenze che si inebria di se stessa e che pare tanto desiderabile a quelle persone che, per caso o malattia, si trovano a uscirne per non poter rientrare mai più.

Il treno nello spettacolo è puro suono, resta nel fischio ed è impressione di un altrove e parente stretto di quella Musica che avevamo identificato come secondo strumento di Partitura P.
Nello spettacolo la Musica di Angelo Vitaliano non è sfondo né mero abbellimento. Nella sua dimensione aleatoria (eseguita in scena, dalla regia alle spalle del pubblico, cambia a ogni replica) essa è piuttosto un personaggio dialogante, un sarto che ricuce i lembi sparsi della poca azione riconducendoli a quel buio da cui, in fondo, provengono. Con poco ritmo e ancor meno melodia, la musica costruisce un bordone che sottolinea momenti pregnanti e in alcuni casi li motiva come i fili invisibili che animano i burattini del teatro di figura.

Terzo elemento del Trio è, infine, l’Attore (e regista) che accoglie già sul palco il suo pubblico che prende posto nel teatro.
Fabrizio Falco è esemplare nella costruzione della drammaturgia attoriale del personaggio. Esordisce nel silenzio, con pochi movimenti della testa e un fitto lavorio di mimica facciale e si fa personaggio in scena lasciando scorrere sul volto amarezza, dolore, rabbia, sarcasmo, malinconia con una precisione a tratti millimetrica.
Per due novelle è l’Io narrante, nell’ultima si carica di mille personaggi, diventa coro e voci in un presto animato e vorticoso. Per ogni maschera ha il giusto dettaglio, ma il lavoro di cesello più sconvolgente è sul testo nella sua interezza. Un lavoro in cui si percepisce una consuetudine affettuosa e mai timorosamente riverenziale con queste novelle celeberrime.
Nella restituzione del fraseggio pirandelliano sorprende la restituzione della musicalità segreta non tanto della prosa dello scrittore siciliano (impresa in cui sarebbero bravi in molti), quanto del suo intimo pensiero. Fabrizio Falco, in fondo, riesce benissimo proprio in questo, nell’usare il testo per arrivare dritto dritto al nocciolo della filosofia di Pirandello. Un nocciolo che, contrariamente alle aspettative della conoscenza un po’ scolastica che se ne ha in Italia, non è duro, ma ricco di modulazioni e di legati e può davvero sfrangiarsi in sofferta melodia. Questo senza dimenticare mai la complessa psicologia dei personaggi, restituita spesso in dettagli minimi come l’incrinatura della voce sulla parola “labbra” riferita alle albicocche che l’uomo dal fiore in bocca volentieri mangerebbe in questo periodo dell’anno o come le modulazioni del corpo nel farsi folla di personaggi, ciascuno con un suo tic, nessuno caricatura.

Partitura P è quindi davvero un bellissimo Trio. Apre in Moderato, come Schubert con cui condivide la disperata nostalgia e la vocazione sonatistica (modulata sui due temi della malinconia e della malattia) e prosegue con un Adagio sospeso e notturno che arpeggia ansioso su tutti i registri di luce della partitura. E chiude con uno Scherzo quasi sinfonico con tanto di trio centrale che abbassa la temperatura emotiva un passo prima della cadenza. Uno scherzo anch’esso schubertiano visto che mischia le carte in un anelito alla fuga di grandi proporzioni.
Insomma un’operazione intelligente e originale che libera Pirandello da certo accademismo e lo riconsegna a quella sperimentazione mai fine a se stessa che è lo spazio che più gli spetterebbe di diritto.


Partitura P
uno studio su Pirandello
da Luigi Pirandello
di e con Fabrizio Falco
disegno Luci Daniele Ciprì
musica Angelo Vitaliano
scene Francesco Ciccimarra
costumi Marina Tardani
produzione Artistica Nicola Ragone
produttore Esecutivo Ivan Brienza
produzione Minimo Comune Teatro
Testi Luigi Pirandello: L’Uomo dal fiore in bocca - Una giornata - Il treno ha fischiato

Teatro dell’Orologio - Sala Gassman - dal 31 marzo al 12 aprile 2015

PHOTOGALLERY- foto di Manuela Giusto



Enregistrer au format PDF