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Percorsi tra cinema e fiaba

Pubblicato il 20 marzo 2007 da Andrea Esposito


Percorsi tra cinema e fiaba

La genesi del cinema è popolare. La sua tradizione e il suo immaginario appartengono più agli spettacoli di burattini e alle ombre cinesi, all’universo dei giochi, al circo e ai giochi di prestigio, che ai musei, ai dipinti e alle statue. Il cinema degli albori proviene più da quel genere di spettacoli di strada. Lo stesso Meliés è un prestigiatore, e i primi effetti speciali sono poco più che ingegnosi trucchi da illusionista.
Da ciò nasce il rapporto privilegiato tra il cinema, quando si trova a rielaborare nel suo linguaggio i diversi prodotti dell’industria culturale, e le forme più popolari d’intrattenimento. Il cinema rilegge i contenuti del sistema della comunicazione e li traspone nelle proprie forme espressive, diventando così, per dirla con Malinovich, l’interfaccia culturale del XX secolo.
Per quest’ordine di motivazioni, è molto particolare l’incontro che si verifica tra il cinema e la fiaba, la quale rappresenta l’espressione più profonda e radicata nell’immaginario di quel mondo popolare di cui parlavamo in apertura. La fiaba è appunto un’origine, il fossile vivente di un mondo sparito che però non si dimentica e viene riletto e ri-raccontato nella realtà industriale e postindustriale che viviamo. Così come l’idea del cinema esisteva prima della realizzazione del mezzo cinematografico (Bazin), e quindi il cinema esisteva prima del cinema, così la fiaba ed il bisogno di essa sopravvive al di là della sua forma originaria. Essa quindi persiste scritta, e non più orale, sopravvive in altri luoghi rispetto a quelli dov’era nata. Due forme di comunicazione, la fiaba e il cinema, che vivono quindi in un’incessante trasformazione, necessaria per assicurare loro la sopravvivenza. Il contatto tra loro diventa così una particolarissima operazione di rilettura ed influenza reciproca, una rimessa in discussione dei canoni della loro struttura. Precisiamo che in questa sede non ci riferiamo alla fiaba nell’accezione più ristretta, ma alla fiaba come favola e come racconto fiabesco, tenendo d’occhio sia l’ambientazione della storia che la morfologia di questa (ciò che in definitiva, riprendendo Propp, definisce la fiaba e la storia di magia in quanto tale).

La prima di queste forme di contatto avviene quando il cinema traspone sullo schermo una fiaba tradizionale. E qui gli esempi sono innumerevoli. Non ci soffermeremo pertanto sulle classiche operazioni (disneyane e non) di rilettura e ‘traduzione’ del patrimonio fiabesco. C’è da dire che col tempo tali riletture sono diventate interessanti trasformazioni della materia originaria: un caso su tutti, il ‘what if’ dell’Hook di Spielberg, che risponde alla domanda ‘Cosa accadrebbe se Peter Pan fosse cresciuto?’. E’ un primo aspetto della trasformazione del mondo della fiaba nel cinema. Ovvero si fa leva esattamente sulla fiaba come materiale di base condiviso, che viene rimescolato per poter essere raccontato ancora e diversamente dal mezzo cinematografico.

D’altronde, la logica di Hook potrebbe appartenere a pieno titolo anche ad una seconda forma di contatto, ben più interessante per gli spunti che offre alla nostra riflessione, e cioè quella che si verifica quando il cinema riflette sulla fiaba intessendo con essa un rapporto vivamente dialettico. Perché il cinema che racconta una fiaba non può essere altro che una lettura della fiaba, o meglio il racconto del racconto di una fiaba. Così, in quest’ambito rientrano quei film che riflettono sul meccanismo narrativo, appunto sul racconto del racconto, prima del racconto. Allora avremo ad esempio Neverland, dove Forster racconta la storia di Barrie, l’autore di Peter pan, così come Terry Gilliam racconta la storia dei Brothers Grimm. Ma in quest’ultimo caso l’intreccio tra realtà e finzione diventa sottotesto costitutivo del film. Come anche in Big Fish, assistiamo ad un continuo gioco di riflessi, che apre il testo cinematografico in un avvincente affastellarsi di piani narrativi. E di fondo persiste sempre un insopprimibile gusto per l’affabulazione in sé.
Solo apparentemente diverso il discorso per The Village, che basa la sua struttura filmica sulla verità e sull’inganno insiti nel meccanismo del racconto. Nella riflessione è così introdotta la problematica della menzogna e della verità del racconto. Ma tali sottotesti esistono sempre in questa forma di rapporto fiaba-cinema, e qui vengono soltanto sviluppati in profondità. In quest’ultima manciata di film presi in esame, ciò che però resta sempre al centro è l’esercizio stesso del racconto, il rapporto tra la storia e il racconto di questa. In essi, più che la fiaba come oggetto, viene messo al centro del testo il perché del racconto della storia e della fiaba.

Un’ultima specie di rapporto tra film e fiaba si realizza quando il cinema mutua alcuni elementi del linguaggio fiabesco e della struttura della fiaba (della sua morfologia, per riprendere Propp), o ne riprende i temi archetipici. E’ questo l’ultimo travestimento della fiaba nel cinema: forme e codici vengono riletti e tradotti (o forse, più propriamente, traslati) nel mezzo cinematografico.
Ecco allora un prodotto composito come Star Wars, che non solo incorpora nella sua narrazione i grandi temi della fiaba, ma anzi li richiama continuamente sotto diverse forme. I cavalieri jedi sono appunto cavalieri, solo travestiti, così come la principessa Leila non è altro che la principessa delle favole. La fantascienza di Star Wars è un contenitore in cui tradurre il cuore pulsante del racconto fiabesco. Un’opera di rilettura incessante e organica, sia a livello tematico che formale. La fiaba è la materia che dà vita e sostentamento a una tale forma cinematografica. E risulta impossibile, a questo punto, non menzionare l’opera di Miyazaki, quel mondo a sé, stupefacente e virtualmente infinito dove questo contatto raggiunge il suo culmine. E’ lì che l’incontro tra fiaba e cinema si fa metamorfosi.


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