Polar express

Robert Zemeckis vive una sorta di inesplicabile complesso di re Mida secondo il quale tutto quello che passa sotto il suo sguardo deve necessariamente trasformarsi in oggetto di pura visione cinematografica. La fisicità degli attori, la concretezza architettonica delle locations, lo splendore degli scenari naturali devono tutti, in certa misura, trasformarsi sempre, sotto l’azione autoriale del suo occhio, in luoghi della mente, dell’immagine e del Cinema. Quella di cui stiamo parlando, in effetti, non è la pura e semplice cinefilia comune a molti autori della sua generazione, non è quel meccanismo ludico che parte dalla visione della Realtà per scoprirne all’interno i germi di un puro immaginario cinematografico (quasi che la stessa realtà sia stata in qualche modo davvero colonizzata dalle immagini del cinema, ridotta ad un suo simulacro), ma non è neanche il gioco del cinema per il cinema, l’esercizio puro sui segni codificati di un genere o di uno stile, in una parola: l’accademia. Zemeckis, in altre parole, non è in nessun modo un semplice post moderno. Se guarda con nostalgia ad un cinema e ad un tempo che sono ormai definitivamente trascorsi (come in questa favola natalizia che ha tanto il sapore dei film strenna di una volta), non per questo il suo sguardo si lascia soffocare dalla commozione, né le sue polemiche contro l’attuale società dei consumi (che ha ridotto lo stesso Natale a festa del consumismo più sfrenato) perdono di lucidità. E questo avviene perché resta sempre ben viva la consapevolezza che il segno cinematografico ha un curioso modo di eternarsi nel tempo e che, se il periodo di un Capra o di un Hitchcock può certamente essere ormai trascorso, i segni che i due autori hanno impresso sulle loro pellicole sono, invece, vivi, fattuali, necessari nel presente immutabile della proiezione di una cineteca virtuale. Di qui, però, anche il senso di sfida che si respira un po’ in tutte le pellicole di Robert Zemeckis, il bisogno mai celato di superare tutti i possibili limiti e le barriere che il cinema si è costruito nell’ultimo ventennio del suo cammino ormai centenario. Ovviamente le sfide possono essere tra loro diversissime e possono coinvolgere tanto l’apparato della messa in scena, quanto la logica narratologica messa in atto nel racconto del film stesso. Possono riguardare lo statuto di un singolo personaggio (Forrest Gump) come possono orientarsi verso la restituzione di un intero mondo, possono, infine orientarsi verso una riflessione su cosa possa significare porsi in un rispetto ancillare della grammatica stessa di un genere cinematografico (Le verità nascoste) o tentarne il superamento mediante la negazione dei suoi stessi postulati o attraverso l’ibridazione con elementi desunti da altri generi come la commedia romantica, il racconto di formazione e il giallo fantascientifico di Contact. Cast away, in questo senso, aveva imboccato la strada del rischio assoluto di una narrazione zero, con le sue azioni ripetitive che negavano, proprio nel momento in cui le magnificavano, le regole del genere avventuroso. Chi ha incastrato Roger Rabbit? rappresentava un primo (e già molto riuscito) tentativo di fondere in un unicum omogeneo il mondo fisico degli attori in carne ed ossa, con il segno cinematografico del cartoon, dell’immagine e dei colori in movimento. Ma già, in quel film si respirava quell’idea, poi centrale alla costruzione del mondo poetico di Polar express, di un mondo popolato di figure cinema, di archetipi narrativi resi vivi dall’azione eternante del mondo della celluloide e costretti quasi a vagare in un mondo troppo concreto per ospitarli. Nel suo ultimo film, il regista americano porta all’estremo il percorso già sperimentato nelle opere precedenti. Affronta il rischio di un racconto anche troppo risaputo e zuccheroso, ma lo fa avvalendosi dei frutti più maturi della nuova tecnologia digitale e della motion picture. Non arretra di fronte all’utopia della negazione della nozione stessa del personaggio arrivando a moltiplicarne uno in cinque (Tom Hanks) e riducendone uno a pura ombra di uno stereotipo narrativo (il piccolo protagonista). Accetta le difficoltà di una narrazione strettamente legata al mito, con il viaggio del Polar express tra i ghiacci e gli ululati dei lupi sfiorando consapevoli citazioni di quegli autori che hanno lavorato consapevolmente proprio sulla destrutturazione di quei miti (gli spuri riferimenti al Nightmare before Christmas di Tim Burton). Ma soprattutto vive dell’idea che tutto quello che ancora può restare di concreto e fisico all’interno della realiazzione di un film possa, alla fine, come per incanto, sparire nella magia di un disegno aereo e che, tutto quello che passa sotto l’occhio della macchina da presa, possa trascolarare in un valanga digitale di colori trasformando definitivamente ed irreversibilmente il Vero in Film. Una bella utopia certo, portata avanti da un regista che sa il fatto suo su come costruire e rendere geniale una scena, ma che ha il difetto di essere una sorta di biglietto di sola andata per il mito. L’immagine, approdata ormai al suo grado assoluto di finzione e archetipo, non riesce più a rimandare al mondo circostante, alla Realtà come invece faceva ancora Chi ha incastrato Roger Rabbitt? Ne viene fuori, alla fine, un’opera pionieristica per la tecnica impiegata, ma forse più necessaria alla storia che alla poesia.
(The Polar express); Regia: Robert Zemeckis; sceneggiatura: Robert Zemeckis, William Broyles jr; fotografia: Don Burgess, Robert Presley; montaggio: Jeremiah O’Driscoll, R. Orlando Duenas; musica: Alan Silvestri; interpreti: Tom Hanks, Michael Jeter, Peter Scolari, Eddie Deezen, Leslie Harter Zemeckis; produzione: Robert Zemeckis, Gary Goetzman, Steve Starkey, William Teitler; distribuzione: Warner Bros
[dicembre 2004]
