Psycho - 50 anni di terrore, tra finzione e realtà

È il 1960 quando gli Stati Uniti (e, poco dopo, il mondo intero) restano terrorizzati dalla visione di Psycho di Alfred Hitchcock; sono passati 50 anni e ancora oggi il terrore non sembra diminuire, anzi! Ogni qual volta si sente parlare di Norman Bates, involontariamente un brivido corre lungo la schiena; una reazione scontata, naturale e concepibile, dato che mai nessun altro serial killer fino a quel momento (e, quasi sicuramente, fino a oggi) è riuscito nell’intento di sconvolgere e spiazzare in maniera tanto orrorifica lo spettatore: Norman Bates non ci ha messo molto a divenire una vera e propria icona cinematografica e, allo stesso tempo, un incubo incomparabile con la maggior parte dei successivi killer cinematografici (da Freddy Krueger a Michael Myers, passando per Leatherface, Jason Voorhees e Hannibal Lecter che, onestamente, nulla possono al confronto del “dolce e ospitale” Norman): quanti ci pensano due volte (o anche di più) prima di decidere di fermarsi in un piccolo motel isolato e poco frequentato? Quanti fanno la doccia nella stanza di un motel prima di aver controllato di aver chiuso a doppia mandata la porta del bagno? Psycho ha sconvolto e ricreato l’intera dimensione cinematografica del genere e, successivamente, non ha dato più scampo a sceneggiatori e registi che si affiancano al thriller: inconsciamente ogni nuovo serial killer psicopatico creato dalla mente umana riporta dei tratti comuni all’apparentemente docile gestore del Bates Motel.
Uno dei film più ripresi, reinventati, omaggiati e citati nella storia del cinema: Richard Franklin, nel 1983, dirige Psycho II (Norman Bates, dopo essere stato detenuto per 22 anni, viene dichiarato sano e libero di ritornare al suo Motel); 3 anni dopo è lo stesso Antony “Bates” Perkins a dirigere Psycho III (Bates vive ancora nel Motel, nel quale ospita una giovane ragazza scappata da un convento); infine, nel 2000, è Mick Garris a chiudere i sequel con il suo Psycho IV – The Beginning, nel quale l’autore prova a raccontare la gioventù di Bates e il suo rapporto con la madre. Ognuna di queste opere è praticamente imparagonabile, improponibile, quasi offensiva nei confronti della perfetta realizzazione hitchcockiana: l’insuccesso di queste tre opere è una dimostrazione del fatto che Psycho è “Il” film, un’opera completa, totale, che non ha bisogno di successivi ritorni sull’argomento (quasi a divenire una saga), perché perfettamente conclusa (e non vogliamo qui nemmeno parlare dell’orrenda serie televisiva del 1987 intitolata Bates Motel, in cui un amico di Norman conosciuto in manicomio, prende possesso del suo motel!). Se si vuole tentare di rifare un film del genere l’unica soluzione possibile è quella di “ricopiarlo perfettamente”, sequenza per sequenza: così come ha fatto, in maniera lodevole, Gus Van Sant, riproponendo l’opera quasi 40 anni dopo, nel 1998; un singolare e avventuroso tentativo (ben riuscito) di ricreare il film a colori, così che anche la scena della doccia, nella quale il sangue è di un rosso intenso, potesse apparire più spiazzante e tetra (anche se l’originale lo è già abbastanza).
Da omaggi espliciti si può velocemente passare a quelli, per così dire, “impliciti”, come, ad esempio, il carpenteriano Halloween, nel quale lo psichiatra curante si chiama Sam Loomis, come il fidanzato di Marion. Il principe di questo genere di omaggi è, comunque, Brian De Palma. E’ ormai risaputo che il regista italo-americano ha sempre preso in prestito le idee di Hitchock per poi riutilizzarle egregiamente nei suoi thriller. E se la scuola di Carrie, nel film omonimo del 1976, si chiama Bates High School, bisogna dire che il vero e proprio film omaggio che De Palma ha realizzato per Psycho è, senza dubbio, Vestito per uccidere. L’opera del 1980 sembra essere quasi un rifacimento del film di Hitchcock, anche se in maniera diversa (più moderna e più “tecnologica”, com’è nello stile di De Palma): dall’inizio allo smascheramento finale del killer e al complesso di cui soffre, tutto sembra riportare al film del 1960; l’incipit, infatti, è praticamente identico a quello di Hitchcock, con l’autore che fa credere allo spettatore che la protagonista del film sia la donna che si segue ormai già da metà film, mentre in realtà si tratta “semplicemente” della prima vittima, colei che farà scattare il motore di tutta la storia.
Omaggi, rifacimenti, tentativi di copia: tutto deriva dalla grandezza dell’opera e dalla sua importanza a livello cinematografico, oltre che ai piccoli dettagli curati dallo stesso regista che vengono menzionati ogni qual volta si parli di questo film. Si racconta, ad esempio, che Hitchcock chiese ai suoi operatori dir far divenire l’acqua immediatamente fredda durante la scena della doccia, così da rendere l’urlo della vittima ancora più agghiacciante; o, ancora, si dice che per rendere più verosimile la scena del ritrovamento del corpo della madre di Norman, l’autore lo abbia fatto mettere nel camerino di Vera Miles (ovviamente a sua insaputa) e avesse aspettato davanti alla porta chiusa l’esito della macabra scoperta, così da poter testare le urla della giovane attrice. Tutti piccoli dettagli curati al fine di rendere perfetta l’opera, così come quando lo stesso regista chiese che fosse vietato l’ingresso al cinema a film già cominciato, così da poter rendere la morte della Leigh (“falsa protagonista”) ancora più inaspettata.
Piccoli dettagli, quindi, che rendono il film una vera e propria pietra miliare del cinema, un “classico”, un’opera che oramai si conosce ancor prima di averla vista, così come il suo protagonista, che fa paura solo a sentirlo nominare: Norman Bates sembra ormai divenuto un incubo incancellabile, quasi lo si sostituisce alle storie dell’orrore che i genitori utilizzano per tenere buoni i figli: “Fai il bravo, altrimenti arriva Norman Bates!”. Un realismo totale quello che si ritrova in questo film: veridicità che ha portato addirittura alcuni a vivere la loro vita come conseguenza del film stesso; si narra infatti che Janet Leigh, da allora, eviti di fare la doccia nei motel e che, addirittura, dopo l’uscita del film, un signore scrisse ad Hitchcock una lettera di lamentele, dicendogli che la figlia – la quale non riusciva più a farsi il bagno dopo aver visto I diabolici di Clouzot – ora non riusciva neppure più a farsi la doccia: si dice anche che, per tutta risposta, l’autore inglese consigliò al padre di mandare la figlia al lavasecco.
Ma facciamo un passo indietro, al 1957: in una cittadina del Wisconsin, Plainfield, la polizia fa irruzione nella fattoria di Ed Gein perché sospettato di rapina in un ferramente e rapimento della proprietaria. Al loro ingresso i poliziotti trovano qualcosa di mostruoso, tra immondizia e cadaveri in decomposizione nonché un vero e proprio abito fatto di pelle umana. Al di là di questa ultima precisazione (chiaro riferimento al killer de Il silenzio degli innocenti) Edward Theodor Gein, conosciuto anche come “Il macellaio di Plainfield”, è stato una tetra ispirazione per molti killer cinematografici, da quello del film di Demme all’assassino armato di motosega in Non aprite quella porta di Tob Hooper. Eppure il miglior personaggio è stato sicuramente quello creato da Robert Bloch che, ispirandosi all’uomo di Plainfield, ha scritto la storia di Norman Bates. Quando Hitchcock legge il libro compra i diritti per soli 9.000 dollari (ancora inconsapevole del fatto che avrebbe creato uno dei peggiori incubi per gli spettatori cinematografici) e acquista quante più copie possibili del libro al fine di non far sì che venga svelato il finale. Un film “veloce” quello che ha voluto realizzare l’autore inglese: per non sprecare tempo (e denaro) utilizza la stessa troupe della serie televisiva Alfred Hitchcock Presenta; una velocità d’esecuzione che però prende tempo nelle scene calde, come quella della doccia: 45 secondi la durata della scena, sette giorni quella delle riprese, per un totale di 35 inquadrature per gli effettivi 22 secondi dell’accoltellamento. In poco più di due mesi il film è completo: la spesa totale si aggira attorno agli 800.000 dollari, alla fine ne incasserà più di 40 milioni.
Al di là di un mero guadagno economico, resta soprattutto la soddisfazione da parte del regista di aver inanellato una nuova perla cinematografica e di averlo fatto non solo in breve tempo, ma con l’accortezza e la cura nei dettagli che lo ha reso famoso.
A questo punto, dopo aver accennato alle vicende di realizzazione e quelle leggendarie del film, nonché dei vari omaggi o tentativi di emulazione, non resta altro che parlare del film in sé… cosa che non sarà fatta! I motivi sono semplici: da un lato sembra inappropriato sintetizzare la trama di un film che, anche se non lo si è visto, anche se non si è cinefili, anche se non si è amanti di Hitchcock o addirittura non si sappia che poco più di 100 anni fa è stata inventata una cosa chiamata Cinema, la si conosce; dall’altro lato sembra riduttivo cercare di semplificare un film come Psycho in pochi caratteri, pensando che Truffaut ha fatto domande a Hitchcock e ottenuto risposte su questo film per quasi un intero capitolo del suo libro-intervista. E poi quante pagine bisognerebbe utilizzare per raccontare dello spiazzante omicidio di quella che, per quasi metà film, sembra essere la protagonista?
Quante per spiegare cosa è il MacGuffin, ovvero la creazione di quell’oggetto di quasi inutile rilevanza che è però fondamentale al fine dello sviluppo dell’intero film (in questo caso rappresentato dai soldi che Marion ruba per poi essere uccisa da Norman, che i soldi nemmeno li vede e li getta in fondo allo stagno con cadavere e automobile)?
Quante battute occorrono per tentare di far fuoriuscire la stessa tensione respirata al momento della sequenza del dialogo tra Norman e Marion nella “stanza degli uccelli”, nella quale quelle tetre creature impagliate sembrano riflettere non solo ciò che succederà a Marion (una morte brutale), ma ciò che è già accaduto alla signora Bates?
Quante, ancora, per far crescere la tensione così come cresce durante la sequenza dell’assassinio?
E quante battute servirebbero, infine, per tentare di svelare l’orrore che si può intravedere negli occhi di Anthony Perkins nella sequenza finale, dopo che lo spettatore ha avuto la spiegazione della malattia di Norman dallo psichiatra e, pochi secondi dopo, lo osserva seduto, a fissare il vuoto (o meglio sarebbe dire a fissare lo spettatore), mentre la voice-off della madre accenna alla propria innocenza e alla colpevolezza del figlio, mentre il suo volto scheletrico si sovrappone, per la durata di un semplice fotogramma, a quello di Norman (mostrando uno dei primissimi messaggi subliminali utilizzati al cinema)?

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