Quando la violenza è di casa. Riflessioni sparse su Animal Kingdom

La violenza come pura espressione degli istinti, che si sprigiona incontrollata e risponde unicamente alle regole ataviche del clan, della tribù, del branco, è al centro del primo lungometraggio di Michôd, vincitore del premio della giuria come miglior film straniero all’ultimo Sundance.
È dai tempi di Scarface (l’originale del 1932) che il cinema nero, in tutte le sue multiformi sfaccettature, dal poliziesco, al thriller, al noir scandaglia l’universo dei legami familiari, sondando gli abissi morbosi che si celano dietro il palinsesto apparentemente nitido del microcosmo domestico. Nel film di Hawks (nonché nell’omaggio-remake firmato da Brian De Palma, con Al Pacino al posto di Paul Muni), che scolpiva una volta per sempre gli archetipi del gangster movie, la torbida parabola del fuorilegge rivelava la sua fatale debolezza nel legame ossessivo con la sorella, che non farà che accelerare un uscita di scena inevitabilmente tragica e grandiosa, mentre alla famiglia d’origine si sostituisce quella dei bravi ragazzi cresciuti con il culto del capo e delle vestaglie di seta.
Se ci volgiamo invece al giallo psicologico, un rapporto non risolto con la madre è il motore drammatico di alcuni dei film più celebri di Alfred Hitchock, finissimo indagatore di rapporti filiali controversi, talvolta ai limiti del patologico, a partire dalla madre imbalsamata che non cessa di turbare la coscienza del povero Norman Bates (ma si dovrebbero ricordare almeno quella dell’ambiguo e succube Sebastian, il nazista marito di Ingrid Bergman in Notorius, o quella della tormentata Marnie, costretta all’infelicità da un segreto sepolto nell’infanzia). La figura della madre è anche il fulcro intorno a cui tutto ruota nel film di Michôd, in cui le donne possono essere solo vittime sacrificali (l’ingenua fidanzatina di Josh, cha cade nelle grinfie dello zio Pope) o scaltre guardiane di un universo amorale in cui vige la legge del più forte o, forse, del più furbo (come l’avvocatessa, pronta a smontare e rimontare la testimonianza del protagonista). Janine, la madre dal sorriso angelico (o è un ghigno?), è una leonessa in un focolare domestico ridotto in macerie, gettato in universo di brutalità in cui l’unica possibilità per il singolo è di sopravvivere con ogni mezzo alla selezione naturale, adottando le stesse armi dei propri nemici e prevedendone le mosse, mentre i legami di sangue si trasformano nei canali di scolo della follia.
Uscito nelle nostre sale a breve distanza da The Town di Ben Affleck, Animal Kingdom, ne ribalta l’assunto, tanto che i due film, che pure pongono entrambi al centro dell’intreccio le vicende di una gang di ladri votata all’autodistruzione, respirano un’aria diversa e offrono una prospettiva complementare. Nel primo la violenza irrompe dall’esterno, quasi emanasse dalla città stessa, dal quartiere più nero di una Boston che ha perso ogni aura, inghiottendo Doug MacRay e i suoi compari, ogni volta pronti a scommettere la vita su un impossibile ultimo colpo. In una città in cui è impossibile essere onesti, la violenza è una necessità, quasi mai una scelta, mentre l’amore si apre facilmente un varco nelle pieghe di una vita che in fondo aspetta solo l’occasione di poter cambiare strada, mentre la famiglia mafiosa (che è un clan di orfani di fatto, lontanissimo dalle geometrie dinastiche di Coppola e Scorsese) è un sostituto troppo fragile ad un padre che passerà troppe vite in galera. Non a caso il film è girato quasi tutto in esterni, fra inseguimenti all’ultimo respiro (riferimento obbligato il Friedkin di Vivere e morire a Los Angeles) e panoramiche di una città in cui il bene e il male si spartiscono solo lo spazio urbano, ma si mescolano nell’evoluzione di un personaggio geneticamente votato alla sconfitta.
Nel film di Michôd la violenza ha invece la ragion d’essere di una forza tellurica, che si sprigiona dall’interno, senza un legame apparente con uno scopo, dilagando in un mondo in cui il bene (incarnato da Leckie, l’unico personaggio onesto) sembra aver perso ogni forza d’attrazione. Quando Barry Brown, fra gli scaffali del supermercato, suggerisce allo zio Pope di rinunciare alle rapine per investire in borsa, l’unica risposta è lo sguardo stralunato di chi sa che destino e istinto si identificano e che a nessuno è dato di scegliere davvero (che senso avrebbe chiedere al predicatore folle de La morte che corre sul fiume di essere ragionevole?). Non a caso Barry poco dopo verrà brutalmente ucciso nel parcheggio, senza che nessuno si preoccupi di verificare se avesse per caso intenzione di arrendersi. Uomini abbattuti come animali (l’omicidio del tatuato Craig nell’erba alta) e corpi gettati fra l’immondizia in un film di agghiacciante e surreale freddezza, che pesca nell’immaginario annichilito di un certo cinema americano anni ’70 (viene subito in mente il Clan dei Barker, ma anche Il braccio violento della legge fa la sua parte), ma è quasi un esperimento antropologico, in cui solo a tratti la macchina da presa pare identificarsi con lo sguardo del protagonista-narratore, ma più spesso adotta un punto di vista esterno e ormai privo di ogni stupore, agevolato da una colonna sonora fatta di silenzi e atmosfere paranoiche. Siamo a Melbourne, ma potremmo forse essere ovunque, e se la casa – covo della madre sembra aver perso ogni potere protettivo, risulta vano cercare altrove dei rifugi surrogati, argini ad una violenza che si espande ovunque (dalla casa di Nicky, dove Josh cerca vanamente riparo, all’appartamento che gli viene assegnato nei giorni precedenti al processo) e che non risparmia nessuno, costringendo anche chi non vorrebbe a fare proprie le sue regole.

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