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QUANDO SEI NATO NON PUOI PIU’ NASCONDERTI

Pubblicato il 20 maggio 2005 da Giovanna Quercia


QUANDO SEI NATO NON PUOI PIU' NASCONDERTI

Sceneggiatura calibrata quella del collaudatissimo trittico Giordana-Rulli-Petraglia. Troppo, vien subito da aggiungere. E’ un cinema in cui si sente il lavorio della penna, il procedimento per tocchi successivi, l’intenzione di tratteggiare per accumulazione dei personaggi le cui caratteristiche socio-psicologiche sono accuratamente studiate a priori. Si dirà che la scrittura consiste proprio in questo lavoro di costruzione, ma in questo caso si commette l’errore di lasciar trapelare l’ingranaggio, di impedire che i personaggi si conquistino un’autonomia magari contraddittoria ma vitale. Tutto fila liscio lungo i binari, previsto e prevedibile. E la lentezza del ritmo di certo non aiuta a celare gli espedienti narrativi. Quando l’affranto padre, in preda ad ansiosi sentimenti di colpa e di gratitudine, regala il cellulare al giovane rumeno che ha salvato il figlio, è chiaro che si tratta di un gesto puramente funzionale allo sviluppo del racconto. Qui non si vuole negare che in un buon film ogni dettaglio, ogni singolo accadimento, abbia una sua necessità; si vuole affermare, però, che in un cinema che si propone di raccontare una storia in maniera avvincente, come è sempre stato quello di Giordana-Rulli-Petraglia, allo spettatore deve sempre sfuggire il disegno complessivo. In Quando sei nato non puoi più nasconderti , invece, nulla sfugge alla comprensione immediata, non c’è spazio per letture oltre la lettera. Mancano le ambiguità, le contraddizioni che ci si aspetterebbero da un film che mira a temi come la perdita dell’innocenza di un adolescente o le difficoltà dell’integrazione. E quando è prevista, l’ambiguità, ovvero nella scena finale, anch’essa è accuratamente annunciata, preparata e infine depotenziata. Tutto si risolve con l’apparizione della prostituta-bambina che si attacca disperatamente a una canzone d’amore di Ramazzotti: il sogno spezzato, l’innocenza tradita, la fatica di sopravvivere sono tutte lì. In pratica una mancata rivelazione. Dopo 20 anni di cinema italiano sull’incontro-scontro con lo straniero e di cronache d’attualità che ci raccontano nel bene e nel male storie di ordinaria immigrazione, questo finale non basta a giustificare un film. Perché non è un’epifania: è un dato. Così come date sono le condizioni in cui si viaggia sulle carrette del mare (la spietatezza degli scafisti, la precarietà delle imbarcazioni, i morti sul “terreno” gettati a mare, etc.). Dal cinema ci si aspetta qualcosa di più della messa in scena del già noto: un viaggio in profondità, o almeno una prospettiva nuova con cui leggere il già noto. Giordana ci ha provato, ha scelto di sposare il punto di vista del tredicenne protagonista, ma anche in questo caso senza andare fino in fondo, senza darci la possibilità di “sentire” veramente con lui, senza mettere la macchina da presa ad altezza di bambino. Non si avverte il Terrore nel ritrovarsi in un peschereccio fatiscente in compagnia di facce esotiche e temibili, né sentiamo sollievo allo sbarco nel centro di accoglienza. Ed è letteramente impossibile credergli, infine, quando il desiderio di restare nel campo con i compagni di “avventura” prevale sul desiderio di sentirsi al sicuro tra le braccia dei genitori. A quel punto ogni riserva di credibilità si è consumata. Quella del protagonista è una reazione da adulto avvertito ideologicamente, altro che sguardo senza pregiudizi di cui solo un bambino può essere portatore! E’ venuto il momento di essere meno cauti, di andare oltre il politically correct a tutti i costi. La coscienza degli italiani è aumentata. Non foss’altro, perché la presenza di immigrati è capillare su quasi tutto il territorio. Anche nei piccoli paesi, ormai da anni, la lingua italiana non è più l’unica che si sente risuonare nelle piazze e nei bar. Con questo non vogliamo sostenere che il problema dell’immigrazione sia risolto, tutt’altro, ma affermare l’esigenza che il cinema vada oltre l’esterrefatta registrazione del fenomeno, come poteva essere plausibile e necessario all’epoca di Lamerica o anche di Aprile. E’ ora di guadagnare a questi anonimi “invasori” lo status di protagonisti delle loro storie, non più semplici specchi delle nostre vite agiate e forse un po’ noiose. Nelle sale oggi c’è Saimir, che a nostro avviso è un limpido esempio di cinema che tenta di superare l’”approccio indiretto”. Senza tante cerimonie il debuttante Munzi ha messo al centro del film un adolescente albanese e, per quanto doloroso possa essere, lo spettatore è costretto a identificarsi con lui, a condividere lo squallore e la durezza delle regole dell’”inserimento” sociale del suo gruppo, a seguire Saimir nella tragica scelta finale che ne fa un fratello di Travis Bickle, ovvero la versione albanese dell’eterna tragedia del vendicatore solitario. Munzi si preoccupa di riconoscere nel protagonista il tratto umano universale e questo fa del suo film un’opera utile, che aumenta la comprensione. Dispiace essere così severi con gli autori, tra gli altri, dell’amatissima meglio gioventù , ma la visione di Quando sei nato non puoi più nasconderti ci riconsegna intatti allo stupore primigenio di fronte ai primi sbarchi di sfollati al porto di Brindisi. Fuori tempo massimo.

[maggio 2005]

regia: Marco Tullio Giordana, sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Marco Tullio Giordana, ispirata all’omonimo romanzo di Maria Pace Ottieni, fotografia: Roberto Forza, montaggio: Roberto Missiroli interpreti: Alessio Boni, Michela Cescon, Rodolfo Corsato, Matteo Gadola, Vlad Alexandru Toma, Ester Hazan produzione: Cattleya, Rai Cinema, distribuzione: O1 Distributiondurata:115’, origine: Italia 2005

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