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RED DRAGON

Pubblicato il 19 ottobre 2002 da Alessandro Borri


RED DRAGON

A rigor di logica l’unico modo di parlare di Red Dragon sarebbe consultare il box office e verificare: funziona? Fa soldi? Se si, l’operazione è riuscita, e il resto non conta. Con tutta evidenza l’unico intento di De Laurentiis, signore e padrone delle sorti cinematografiche di Hannibal, è spillare fino all’ultimo cent dalla vena d’oro fornitagli dai romanzi di Thomas Harris, e quest’ultimo prodotto nasce al solo scopo di rimediare all’unico passo falso (dal suo punto di vista) della serie (Manhunter) piazzando Athony Hopkins al posto di Brian Cox e restituendo Lecter al centro della scena, ancora una volta. Che poi quell’errore “di gioventù” sia il più bel film sui serial killer dai tempi di Peeping Tom, è per il buon Dino del tutto ininfluente. Visto che però il sottoscritto si trova ad aver scritto un libro su Michael Mann, gli sia consentito di dilungare questa recensione un po’ più del lecito. Cominciamo col dire che, per chi conosce Manhunter, la visione di Red Dragon è di una intollerabile tediosità. Questo perché Ted Tally sembra aver fotocopiato, per risparmiare tempo, l’adattamento manniano del libro di Harris. Il “cosa” è, il più delle volte, uguale in modo imbarazzante, cosicché uno può tranquillamente anticipare gesti, battute e sviluppi (giusto nel finale interviene qualche differenza, in nome della fedeltà al testo). È nel “come” che si apre l’abisso. Perché il giovane, rampante Ratner, è comunque un ammiratore di Mann (è tra i candidati alla regia dell’annoso Ferrari project), e sembra colto da timore reverenziale verso il prototipo, dannandosi a volte per scovare inquadrature diverse in scene identiche, altrove citando pedissequamente attacchi, soluzioni, tempistiche. Contemporaneamente, dall’ombra incombente di Manhunter deve spostarsi a quella del Silenzio degli innocenti, replicandone il cotè atmosferico-scenografico (dalla cella di Lecter alle suggestioni rurali), fino a quella di Hannibal (il grottesco della scena iniziale, con “flautista incompetente dato in pasto a raffinati commensali citando Orazio in casa ricalcata su quella di Freud” - il tutto inventato per l’occasione da Harris in modo da far divertire un po’ il simpatico cannibale prima di essere sbattuto in cella). Quel che manca è tutto il resto: un minimo di atmosfera, uno straccio di idea stilistica, un qualcosa che faccia svanire la nebulosa d’inutilità che grava su Red Dragon. Quel che Manhunter lasciava nel regno dell’ambiguità (la visita alla tigre, ad esempio) viene impietosamente didascalizzato; la folgorante concisione strutturale manniana è diluita e depotenziata; la sua poesia ellittica svapora nel grand guignol sottolineato dai tautologici pieni orchestrali di Elfman; alcuni momenti sono sinceramente imbarazzanti (il saluto di Graham alla famiglia quando si rimette in caccia, ad esempio, più adatto a un viaggio d’affari che a un’immersione nel regno del male). E tutti gli illustri nomi di una produzione prestigiosa come non mai si mettono al servizio di una piatta illustratività che non ha neanche la forza di giocare consapevolmente di sponda con l’originale. A questo punto è superfluo sottolineare che Lecter e Chilton sono invecchiati di dieci anni rispetto al Silenzio degli innocenti, o che Crawford non è più Scott Glenn ma Harvey Keitel. D’altra parte il caso Foster-Moore in Hannibal dimostra l’importanza data da De Laurentiis a dettagli del genere. Quanto allo spiegamento di forze attoriali, non produce risultati migliori. Hopkins (tenuto a bada da Demme) con Scott e Ratner istrioneggia incontrollabile sfoggiando codino e mefistotelismi vari che hanno il solo effetto di disintegrare il mistero lecteriano. Ma vuoi mettere il gusto di reinfilarlo nella cella disegnata da Kristi Zea, facendogli annusare il profumo dell’agente FBI di turno? Anche l’ottimo Norton nell’occasione è incredibilmente moscio, con un decimo del carisma di William Petersen, mentre il feeling elettrico che univa Jodie Foster e Hopkins resta un ricordo lontano. Le cose vanno un po’ meglio dalla parte del male: l’inusitatamente palestrato e tatuato Ralph Fiennes (che pareva essere un clamoroso caso di mistcasting) si rivela la scelta più convincente, e un minimo del lirismo nel rapporto con Reba - Emily Watson - resiste all’enorme sforzo di banalizzazione che investe su tutta la linea il prototipo. Di solito i remake (d’accordo, questo non è un remake propriamente detto, rimandando a un unico “ipotesto extrasistemico” - come dice Marcello Walter Bruno alla voce “Remake” nel volume Hollywood 2000, a cura di Leonardo Gandini e Roy Menarini, Le Mani 2001 - ovverosia il Red Dragon di Harris), i remake dicevamo servono per aggiornare a una sensibilità nuova, con nuovi corpi e forme, temi sempiterni. Qui solamente per perfezionare un investimento non del tutto riuscito. È il mercato, baby. Quanto alle intenzioni del produttore di fare di Hannibal un franchising alla Bond, svincolandolo dalla fonte letteraria, c’è solo da sperare che Hopkins ponga il veto. A meno che De Laurentiis non cambi pure lui, optando per un cannibale più giovane e prestante. Siamo pronti a tutto, ormai.

[ottobre 2002]

Cast & credits:

Regia: Brett Ratner; sceneggiatura: Ted Tally; fotografia: Dante Spinotti; montaggio: Mark Helfrich; musica: Danny Elfman; scenografia: Kristi Zea, costumi: Betsy Heimann; interpreti: Anthony Hopkins, Edward Norton, Harvey Keitel, Ralph Fiennes, Emily Watson, Mary-Louise Parker, Philip Seymour Hoffman; produzione: Dino e Martha De Laurentiis per Universal Pictures; origine: USA 2002; durata: 124’; distribuzione: UIP.

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