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Remaking Hitchcock

Pubblicato il 25 agosto 2007 da Alessandro Izzi


Remaking Hitchcock

Realizzare un remake di un film deve essere, per l’autore che vi si cimenti, come l’attraversare, di notte, un campo minato. L’esigenza di riscrivere un qualcosa che aveva già trovato una sua forma definitiva deve dare non pochi problemi a quel regista che voglia aspirare anche all’appellativo di Autore.
Come essere, infatti, originali ripetendo il già detto? E come non allontanarsi eccessivamente dall’opera/modello che funge da fonte al nostro progetto artistico senza perdere la propria dignità riducendosi al rango di metteur en scene?

Il regista di un Remake - novello Ulisse tra sirene ammalianti - si trova, infatti, a essere conteso da due apparentemente opposte esigenze.
Da una parte egli può essere tentato ad allontanarsi il più possibile dall’opera che è alla base del suo film quasi in cerca di quei vasti campi del plot che il suo predecessore ha lasciato inesplorati, entro cui permettere al suo Ego autoriale di espandersi indefinitamente.
Dall’altra egli può cercare di rispettare il più possibile l’opera originale nel tentativo di riproporne spirito e significato senza, però, (se possibile) sacrificare le proprie ragioni artistiche.

Tanto sull’una, quanto sull’altra possibilità grava, però, minacciosa, l’ombra della ripetizione, del deja vu che brandisce la castrante falce del plagio (sia esso volontario o meno).

In realtà ci pare che questa situazione poggi tutta sull’erronea convinzione che un Remake sia, comunque e ad ogni modo, un’opera meno dignitosa di un film originale. Da ciò il paradosso di un autore che cerca affannosamente di creare un’opera che sia il più possibile altra dal suo modello senza rendersi conto che la sua opera nasce "naturalmente" diversa.
Quand’anche si cerchi il più possibile di rispettare le fonti, quand’anche si tenti non tanto di riscrivere un film, quanto, piuttosto, di riprodurlo, le due opere, se confrontate, mostreranno delle divergenze insanabili, delle differenze troppo profonde.
Lo dimostra a sufficienza, ci pare, il caso limite di un film come Psycho di Gus Van Sant che riproduce, come una fotocopia a colori, la splendida pellicola di Hitchcock. Al di là dei risultati estetici, è da subito evidente che l’opera di Van Sant sia altra cosa dal capolavoro hithcockiano, pur ripercorrendone lo sviluppo quasi inquadratura per inquadratura. E se il film del 1960 era un autentico poema sull’infinita interpretabilità del Reale e su come ognuno di noi tenda a dare un significato diverso alle cose che ci circondano (tanto per fare un esempio: il giornale con avvolta la refurtiva della rapina che apre la pellicola è di importanza capitale per Marion e poco più che carta straccia per Norman), il film vansantiano è, piuttosto, un monumento eretto in memoria di un film monumentale.
Anzi tanto più è filologica la cura con cui Van sant rispetta il suo modello, tanto più, per paradosso se ne distacca. E non solo perchè la scelta del colore al posto del bianco e nero originale da alla lettura delle immagini un ritmo più rapido e una minore profondità esistenziale, ma anche e soprattutto perchè cambia radicalmente il destinatario del prodotto finale. Mentre Hitchcock, infatti, si rivolgeva direttamente alle vaste platee ed ogni sua scelta registica (come quella di impedire l’ingresso in sala agli spettatori che arrivavano troppo tardi e perdevano quindi l’effetto shock del primo delitto) era rivolta a saggare la presa "popolare" del suo lavoro, per Van Sant, invece, il fruitore ideale del suo prodotto è un cinefilo colto, assolutamente consapevole delle conquiste della pop art. L’atteggiamento del regista di Cincinnati, insomma, è quasi Wharoliano: realizza il film pensandolo per un Museo prima ancora che per il cinema. Se, insomma, Hitchcock partiva dal film per arrivare al pubblico, Van Sant realizza la sua opera per tornare al Cinema, per essere parte integrante del Cinema. E non è un caso che di qui in poi, tra Jerry, Elephant e Last days l’opera del regista americano si orienti sempre più verso una precisa vocazione d’Arte.

Hitchcock, però, si presta, all’interno di questo discorso, come una perfetta cartina di tornasole per rendersi conto di quanto ancora male si giochi con il concetto di Remake. Nel passato, quando ancora l’intellettuale non flirtava con l’idea romantica del genio assoluto e dell’opera unica ed irripetibile, la pratica di riscrivere integralmente un testo adeguandolo ad un nuovo contesto era tutt’altro che rara. Il caso dell’opera lirica è illuminante in questo senso visto che da un libretto di Metastasio potevano essere tratte centinaia di opere diverse. La differenza fondamentale e la distanza che ci separa da questo periodo aureo del remake sta tutta nella considerazione che nel Settecento l’opera d’arte, una volta consumata, veniva rapidamente dimenticata ed era quindi più facile riproporre al pubblico uno stesso soggetto rifatto in modo diverso. Oggi invece, nel pieno dell’epoca della riproducibilità tecnica dell’Arte, quando un film è virtualmente sempre disponibile attraverso televisione ed home video, rifare un film ex novo da uno stesso soggetto crea qualche problema in più. Ed è in questa prospettiva che il gesto di Gus Van Sant assume un valore ancora più significativo. Perchè ci mette di fronte al paradosso più grande della nostra epoca: quello di avere, grazie alle nuove tecnologie, la nostra storia letteralmente ad un click del mouse del nostro PC proprio mentre perdiamo progressivamente ed inesorabilmente il "senso" del nostro stesso passato. In questa prospettiva si può rifare realmente un film di qualche anno fa spacciandolo per nuovo, ma viene a mancare quella "verginità" con cui un compositore rimetteva in musica un libretto d’opera.

Il caso recentissimo di Disturbia (ennesimo remake di La finestra sul cortile: capolavoro teorico del mago del brivido) è un’elteriore comprova non solo della mancanza di fantasia nella quale versa l’intera industria hollywoodiana, ma soprattutto è la conferma di quanto proprio l’industria che maggiormente flirta con l’idea di remake (è appena passata l’ubricatura di rifacimenti di horror orientali) sia del tutto incapace, poi, di comprendere la portata anche teorica del proprio stesso operato.
Il film di Caruso, infatti, avrebbe potuto essere uno splendido esempio di giochi speculari: uno "sguardo" nuovo su una storia che parla dell’atto di "guardare", un gioco cinematografico su un vecchio film che, raccontando una storia di puro intrattenimento, parla prima di tutto del cinema e della sua capacità di "mettere in scena", appunto, storie e destini.
Secondo una propensione tipicamente americana (non solo del post 11 settembre), però, la trama non è più, come avveniva in Hitchcock, un "pretesto", ma è il "testo" tout court. E al regista non resta altro compito che quello di illustrarlo con immagini che sappiano strappare qualche soprassalto e qualche sorriso ad una platea che pare sempre più lobotomizzata dalla televisione e dalle play stations. Hi tech, aggiornato, giovanilistico, Disturbia è un film che funziona nello spazio franco della sua proiezione. Ma, in barba al suo titolo, non "disturba" il proprio pubblico. Non gli lascia domande o pensieri su cui riflettere. E a quel punto Hitchcock si può pure evitare di citarlo nei titoli di testa.


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