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Repubblica, Cinema e un povero lettore

Pubblicato il 18 settembre 2002 da Alessandro Borri


Repubblica, Cinema e un povero lettore

Questo è uno sfogo personale. Non ci fate caso, ogni tanto capita. In pratica, invidio molto chi ha la mazzetta di giornali. Sapete, quelli che ogni mattina che dio manda in terra sbarcano in edicola per riprendere le vele trionfalmente carichi di ogni sorta di quotidiani fruscianti. Ora: quando trovano il benedetto tempo per sfogliarli, o addirittura leggerli? Mi macero nel dubbio, e nel frattempo - più modestamente - sono costretto a scegliere un (1) misero giornale. Cado su “Repubblica”, per una serie di motivi che pare noioso elencare (formato, leggibilità, una certa consonanza generale di idee, interesse complessivo degli articoli, cose così). Si da il caso però che di solito mi occupo di cinema e affini, cosicché vado a compulsare con interesse particolare le pagine dedicate a “cultura” e “spettacoli” (che dovrebbero rientrare nella stessa categoria, se non erro). E qui iniziano i dolori. Con un fulmineo flashback, potrei ricordare che una volta (ma sì, una volta, ai tempi del modernismo imperante) la Cultura era qualcosa di intoccabile, un feticcio intellettuale insostituibile, e di conseguenza veniva presentata alle masse più o meno acculturate come un vessillo da adorare nella sua sovrana pesantezza, fino a provocare (innegabilmente, inevitabilmente) un fisiologico rigetto. Il moderno si è sottratto - a volte per necessità, a volte spocchiosamente e ottusamente - al gusto del pubblico, consegnandoci infine (stringo un po’, siamo su Internet: cerchiamo come sempre di sintetizzare senza semplificare troppo) all’attuale situazione. Quella per cui, passati attraverso il lavacro postmoderno (col vantaggio del suo approccio ludico, che andava a svelare il fondamentale valore di divertimento della cultura; con lo svantaggio che l’abbattimento degli idoli avrebbe portato acriticamente alla loro sostituzione acritica coi simulacri del trash, eletti a simboli della riscossa antiaccademica) la Cultura si è ritrovata dopo la sbornia ridotta a fantoccio anacronistico, zavorra francamente inutile. Per stare al cinema che (almeno fino a pochi anni fa) era la sua avanguardia mediatica) questo mutamento epocale non passa solo attraverso le cronache di Vincenzo Mollica al telegiornale della sera o le famigerate schede di “Ciak”, ma anche per un’abdicazione su tutta la linea della critica. Che - eccoci al punto - uno dei due principali quotidiani italiani, in particolare quello che si vorrebbe leader nel settore ci cui stiamo parlando, si affidi per il cinema alle cronache orgogliosamente anti-cinefile di Natalia Aspesi (come prima alle recensioni da tè e pasticcini di Irene Bignardi) dovrebbe far riflettere. E se una volta, appunto, era magari lo scrittore togato che si incaricava di dare la giusta patina “alta” ai film del momento (Moravia è l’esempio più noto) ora chiunque può parlare di cinema, meglio se non ci capisce niente. Ed ecco il buon Curzio Maltese sproloquiare in allegria (da leggenda il suo un-due-tre su Indipendence Day, Twister e Mission: Impossible trattati alla stregua dello stesso film. E magari anche l’ottimo Michele Serra ci si mette a dire qualche stupidaggine su Star Wars. Va a finire che il miglior recensore del giornale è Vittorio Zucconi, quando gli capita di parlare di qualche opera di interesse storico, prevalentemente extra-cinematografico: almeno scrive bene. Quanto agli effettivi “esperti” del campo, Paolo D’Agostini è impegnato in una commovente quanto disperata difesa d’ufficio del cinema italiano in toto, mentre Roberto Nepoti si mette di buzzo buono a spargere di pillole storico-linguistiche il trito rituale “tramina e commentuccio” da quotidiano, e infine solo Alberto Farassino viene a riscattare il tutto di quando in quando,da qualche festival, con la sua finissima intelligenza. E allora? Niente, non son qui a salvare il mondo dalla sua stupidificazione. Solo che oggi, aprendo le pagine dedicate a Venezia, non ce l’ho fatta più a tener tutto dentro. Quando in un box si affilia, con indubbia finezza, l’ultima opera del grande Tsukamoto Sninya al filone dei “feticisti-guardoni”, sinceramente mi pare che sia troppo. Scusate ancora, davvero. Ehi, però: mi sento già meglio.

[3 settembre 2002]


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