X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Ricordati di me: Muccino al quadrato

Pubblicato il 19 febbraio 2003 da Alessandro Borri


Ricordati di me: Muccino al quadrato

Ricordati di me è una specie di Muccino al quadrato, iperbolico nella sua ansia totalizzante. Ammirevole, quasi: chi altro poteva fornire materiale di studio per tutta una storica puntata di Porta a porta, nonché per un’intera settimana televisiva? Praticamente il tema consiste in: la società italiana contemporanea, quella delle Veline e dell’attimino, e le sue compresenti, problematiche generazioni. Ormai il buon Gabriele se l’è passate tutte al setaccio, gli mancano solo vecchi e bambini, nonni e nipoti, buco cui certamente il massimo cantore dell’Italia a cavallo del secolo porrà presto rimedio. Nel suo sforzo di dire “tutto”, Muccino è costretto a fare di ogni personaggio una figura ideale il più possibile generalista, e rappresentativa di una categoria dello spirito: l’adolescente sfigato con ormoni e neuroni in piena tempesta pre-maturità; la ragazzetta tanto, troppo sveglia e famelica di visibilità; i genitori frustrati nei loro divergenti e complementari sogni di gioventù; l’ex fiamma angelicata e infinitamente comprensiva, amante e mamma distillata, purissima. In questo loro essere precarie incarnazioni di archetipi assoluti, i personaggi mucciniani non possono esimersi dall’esprimersi come libri stampati, nonché dal prorompere periodicamente in frasi memorabili del tipo: “io traboccavo di sogni quando ti ho conosciuta”, o “non siamo più complici, non ci emozioniamo più per le stesse cose”.
Muccino è implacabile, come il Bignami: una serie di nozioni dibattute allo stremo su qualsiasi rotocalco o talk show, dalla crisi della famiglia alla televisizzazione imperante nel paese “reale”, vengono compresse in pillole, nobilitate da un approccio sottilmente critico, e offerte al popolo. E il popolo accorre, ammirato. Muccino lo fa sentire migliore, lo eleva dalle miserie della comicità trash: perché è mordace (ma alla fine consola), perché guarda oggettivamente (ma aderisce, eccome se aderisce), perché addita il demonio nella bestia immonda infilata nel tubo catodico (ma fa spettacolo coi meccanismi appresi in televisione, compreso l’andare costantemente a mille, perché chi si ferma è perduto). Forse è un po’ preoccupante che l’Italia per capirsi e capire ciò che gira intorno abbia bisogno di farsi ripetere in forma trendy e pseudo-autoriale cose sentite fino allo svenimento, ma ne prendiamo atto. Tutta la struttura di Ricordati di me è comunque permeata da questa foga classificatoria, ordinata diligentemente mattoncino dopo mattoncino. Ogni scena si offre in forma di sentenza, sintetica e definitiva. C’è tutto, ma proprio tutto quello che ti puoi aspettare in una compilation sociologica. C’è il forzaitaliota post-politico, sorridente e stronzo quanto è giusto (la scena col gippone è un piccolo capolavoro), e la pischella new global, informata e terzomondista. C’è la cena con calciatore e starlettes, e il regista teatrale omosessuale. C’è il pacco d’erba e la sniffata di cocaina. C’è l’essere e l’apparire, nientemeno. Il tutto presentato e incartato sagacemente da una voice over che si piazza alla confluenza tra Amélie e le commedie d’impianto sociale degli anni ’40-’50. È il tocco d’autore, come sbagliarsi, allo stesso grado delle steadicam che corrono, girano, incalzano impazzite e dell’esagitazione costante richiesta agli attori, in primis una Morante costretta all’urlo, primadonna nello psicodramma polifonico assortito.
Questa foga didascalica al limite del messianesimo raggiunge l’acme negli ormai proverbiali montaggi paralleli di Muccino, frenetiche vette del suo pensiero tautologico, costruzioni matematiche al limite dell’astrazione nella loro sublime prevedibilità, in cui la somma è invariabilmente A+A=A al quadrato. Qualcuno potrà chiosare che queste pervicaci insistenze sull’esplicitazione di snodi teorici chiarissimi sono un insulto all’intelligenza dello spettatore. Noi preferiamo dire che fanno parte della natura pedagogica, latamente scientifica dell’approccio mucciniano. Perché tutti capiscano, urge ribadire continuamente i concetti chiave, e i risultati sono incontrovertibili: quanti uscendo dalla sala asseriscono “è vero, è proprio così, è una foto della realtà, è come guardarsi allo specchio”? Dev’essere proprio vero. Com’è vero che quando si rallenta per qualche istante, si colgono degli accenti più sinceri di affetto per i personaggi. Ci si ricorda allora che la poesia delle speranze represse, il dolore del rimettersi in gioco l’aveva già cantati Soldini in L’aria serena dell’Ovest. Ma via, bando alle nostalgie, si deve andare a chiudere, tutti i mattoni devono andare al posto giusto, compreso l’obbligatorio (finto) sberleffo finale.
Questo poderoso sforzo di moralizzazione per accumulo è allora veramente la grande commedia di costume aggiornata ai tempi? Altroché. Quanto al fatto che dal Dino Risi di Una vita difficile e Il sorpasso, dallo Scola di C’eravamo tanto amati, si sia planati bel belli verso il Muccino di L’ultimo bacio e Ricordati di me, è un sintomo preciso della decadenza non solo del cinema, ma della società italiana tutta, e così sia.

[febbraio 2003]


Enregistrer au format PDF