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Riflessione spontanea sul cinema italiano

Pubblicato il 19 settembre 2007 da Edoardo Zaccagnini


Riflessione spontanea sul cinema italiano

Venezia, 8 settembre 2007. Ang Lee vince il suo secondo Leone d’Oro. Un bravo regista franco-tunisino considera modesto il premio speciale che la giuria gli consegna. Brian De Palma non fa un fiato e porta a casa un meritatissimo argento. Ad un attore e ad un’attrice americana vanno i riconoscimenti per le migliori interpretazioni. Più o meno meritati. Una giornalista italiana domanda a Ferzan Ozpetek, membro della giuria, la quantità di tempo spesa a riflettere sul cinema italiano. L’autore risponde che non c’è stato margine di discussione. Fa capire che il cinema italiano non ha avuto nessun ruolo nella lunga e complessa riunione che ha portato all’assegnazione dei premi. E’ una risposta dura ma scontata, che brucia a lui e a chi ascolta il commento. La giornalista rimane in silenzio e passa subito ad un’altra domanda. In quei giorni Todd Haynes ha indicato a chiunque la strada della libertà espressiva.

Cannes, maggio 2007. Pochi mesi prima. L’Italia non ha nessun film in concorso. Solo Mio fratello è figlio unico ci rappresenta in una sezione collaterale. E nessuno ne rimane colpito. Come nessuno si alzò a dire, l’anno prima, che Il Regista di Matrimoni era un gran film. O che Il Caimano meritasse un riconoscimento internazionale sottoforma di Palma.

Roma, luglio 2007. E’ ufficiale: il cinema italiano in concorso a Venezia sarà rappresentato da tre giovani autori. Uno si chiama Paolo Franchi e finora ha fatto un solo titolo. Un altro si chiama Andrea Porporati e anche lui, finora, ha fatto un solo film. Il terzo si chiama Vincenzo Marra e ha fatto già due film. Di lui parlano bene in tanti e Mario Monicelli, ad ogni domanda sul presente del cinema italiano, dopo qualche istante di balbettante riflessione, risponde che c’è questo Marra che è bravo…

Venezia, 9 settembre 2006. Un anno prima. Emanuele Crialese è pazzo di gioia: il suo film Nuovomondo ha ottenuto il Leone d’Argento. Nei giorni successivi, il regista accompagnerà il suo film nelle prime proiezioni romane, applauditissime. C’è una certa eccitazione in tutto l’ambiente del cinema italiano. Alla fine il film non incasserà un granché.

Pesaro, giugno/luglio 2006. Una sezione della mostra del nuovo cinema è dedicata agli esordi italiani dal 2000 al 2006. In dieci giorni passano circa quaranta film ed un nutrito gruppo di critici, registi, attori (e qualche produttore), si addanna a cercare di capire se le cose vadano oppure non vadano. In che misura il cinema italiano è forte o in quale condizione di disagio vive. Si sente dire di tutto. Che questa generazione è uscita dai quaranta metri quadri degli appartamenti e dall’ombelicalismo dei decenni precedenti. Si parla di un cinema vivo ed eterogeneo, che ricerca e riflette. Si vedono film di diversa natura, vicini al realismo e al presente, liberi nel linguaggio e non sostenuti dalle istituzioni. Qualcuno parla di incompatibilità tra autori e pubblico, di una libertà che diventa evanescente quando incontra lo spettatore. Di sicuro in questo panorama frastagliato, che sembra un arcipelago senza capitale, manca il genio capace di attirare su di se un vasto consenso. Eppure si concorda nel considerare promettente un gruppo di ragazzi registi: Garrone, Sorrentino, Marra, Patierno, Mereu, Gaglianone, Rossi Stuart, Franchi, Porporati, Vicari, Munzi, Crialese, Costanzo, Paravidino. Quattordici nomi, quattrodici autori giovani e impegnati che non possono non infondere fiducia, speranza e aspettativa. E ai quali va aggiunto il potenziale mostrato da David Marengo nel movimentato Notturno Bus.

Torniamo al luglio del 2007. Ai nomi di Franchi, Porporati e Marra. Alla notizia della loro corsa al Leone, fa eco un cauto entusiasmo. Due anni prima l’Italia a Venezia era composta da un Pupi Avati servitore di favole profumate, (sempre ben confezionate, facilmente digeribili e gradevoli), da un pessimo Roberto Faenza (dopo il convincente Alla luce del sole) e da una Cristina Comencini tutta fiction impegnata. Non fu piacevole partire sconfitti ancor prima di avere cominciato. Ma assai di più rattristava l’idea di vedere il cinema italiano rappresentato da cineasti fuori generazione. Incapaci di offrire uno sguardo sul presente che non fosse quello di chi è già in là con la vita, il cinema e la carriera.
Per questo c’è stato il sì deciso, e prudente, ai tre ragazzi emergenti. Uno veneto, l’altro romano, il terzo napoletano. Eravamo quasi certi di assistere a tre lavori personali e freschi, girati al presente e scevri, per altro, da carezze al botteghino. Ci era difficile pensare che Marra avrebbe tolto al suo cinema il rigore e la determinazione che sinora l’avevano caretterizzato e sostenuto. Né era facile pensare che Porporati avrebbe rivolto la sua capacità di gestire i tempi e i modi della narrazione ai gusti del pubblico peggiore, quello più grosso e passivo. Su Franchi c’erano più incognite, ma non per questo meno aspettative: La spettatrice era un film di importante interiorità, un esercizio di virtuosismi indirizzati alla psicologia sociale e allo spessore formale.
Ma il sì ai questi tre film era soprattutto il sì ad una generazione. Quando uscì Anche libero va bene si ebbe la certezza della nascita di un piccolo maestro. E quando a Venezia applaudimmo Saimir, fummo convinti che Francesco Munzi avrebbe potuto dare molto in futuro. I giovanissimi raccontati con grande efficacia da questi due registi ci erano sembrati una forte sterzata in direzione narrativa, ed un’improvvisa accelerazione verso il nostro tempo, ben al di là della convenzione, sempre valida da un punto di vista storico-sociologico, con cui il muccinianesimo moccista ci stava raccontando la giovane borghesia italiana. Soprattutto romana. L’idea di un Marra alle prese con una Roma mostruosa ci affascinava; Il porporati con più mezzi costruiva in noi l’immagine di un racconto denso e sinuoso. E lo stesso, in qualche modo, aspettavamo dalle immersioni nella psiche e nelle potenzialità espressive di Paolo Franchi. Il silenzio che ha stordito il suo film, creando consequenziali ed evitabili incomprensioni tra il regista e la stampa, ci è dispiaciuto. Il breve applauso che ha seguito i titoli di coda de Il dolce e l’amaro ci è parso il segno di un arrivederci a presto, “se ne hai voglia tu! Porporati”. I fischi clamorosi a Marra hanno finito per mandare il nostro morale sotto i tacchi. Ci spaventa l’idea di un Marra in confusione fuori dai vicoli moderni della sua città e dal verghismo asciutto ed insistente che l’aveva nettamente caratterizzato. Non si può non costatare un suo disagio di fronte a nuovi canoni espressivi.

Piccolissimo passo indietro: Prologo Veneziano, sempre del 2007. “La Repubblica” del 30 agosto porta in prima pagina un articolo di Carlo Lizzani. Il regista-critico-scrittore risponde alle parole di Galli Della Loggia uscite pochi giorni prima sulle pagine del “Corriere della sera”. Lizzani individua nel cinema italiano la mancanza di un sentire comune e l’incapacità di raggiungere una rivoluzione espressiva che riavvicini il cinema al paese ed il paese alle sue corde più importanti. Alla virtuale discussione prendono parte anche Marco Bellocchio ed Ermanno Olmi: altri due pilastri del cinema italiano del tardo dopoguerra. E la questione viene ripresa e conclusa, si fa per dire, da un articolo domenicale di Eugenio Scalfari. Non è colpa del nostro tempo, sembra sintetizzare il giornalista, ma dell’egoismo di chi fa cinema. E’ importantissimo ragionare sulla forma. E’ necessaria la conquista di un nuovo linguaggio. I “Vecchi” maestri vanno tutti nella stessa direzione: intellettuali e grandi registi italiani del passato, ancora vivi e attivi, rimproverano ai giovani un non essere in grado di fare un cinema importante per il paese.
Fa sorridere e riflettere il fatto che i padri, per un paradosso storico in ambito cinematografico, si mettano a dire ai figli ciò che devono o non devono fare. Ma dà anche da pensare la causa del loro intervento, il monito accalorato, e per certi versi affettuoso, che questi rugosi autori debbono mettersi a lanciare per amore del rapporto tra il cinema e la popolazione. E il loro intervento non può non meritare una profonda riflessione.
Il cinema italiano dei nostri giorni è la summa di più movimenti indipendenti tra loro e pluridirezionali: da una parte esiste un filone ben delineato che raccoglie pubblico con una generale leggerezza di contenuto ed una aprioristica rinuncia alla forma autoriale. E’ un cinema fatto di commedia senza acuti e destinato prevalentemente ai giovani. Che vuole intrattenere e rallegrare, che allontana dall’analisi e dall’approfondimento. E’ il cinema che salva, senza salvarlo affatto, il cinema italiano attraverso i suoi favolosi ed indicativi incassi. Fausto Brizzi è il migliore interprete di una formula (vincente a seconda dei punti di vista) che prende spunto dal solco costituito qualche anno prima dai film di Muccino. Agilità, sveltezza, bozzetto, macchia, gag e sottile ma costante narrazione sono le sue prerogative. Sotto la sua intelligenza e furbizia si aggrovigliano le pellicole tratte da Moccia e sulla loro scia si insinuano prodotti di un certo affidamento commerciale. Last Minute Marocco, di Francesco Falaschi, è forse l’esempio migliore, da un punto di vista storico, per spiegare questa tendenza: siamo ai giovani appena maturi che hanno energia e paura. Borghesi non proprio al buio che partono per il viaggio e vivono d’amore e d’amicizia la lontananza dal fallimento latente dei genitori. Sono per lo più ragazzi belli senza problemi di danaro, senza ideologia e con un certo disagio costruttivo. Nascono piccole star che invadono le pellicole di vari autori: Nicolas Vaporidis, Cristiana Capotondi, Laura Chiatti, Silvio Muccino e il chiacchieratissimo e singolare Riccardo Scamarcio. Questi divetti recitano in un mucchio di fast film che nel migliore dei casi raccontano qualcosa (Come te nessuno mai, Che ne sarà di noi, Scrivilo sui muri), e in altri casi si nutrono avidamente dei bisogni dei ragazzi. (Io e te tre metri sopra il cielo, Ho voglia di te, Il mio miglior nemico, Ecco fatto, Prova a volare.) In questo vortice di quartieri romani cadono anche vecchie promesse come quella Francesca Archibugi che, dopo le mura decadenti de Il grande cocomero e L’albero delle pere, retrocede a raccontarci gli amorucci esotici di due pupotti figli di un sessantotto borghese andato decisamente a male.

Poi esiste il cinema dei costretti alla super indipendenza, che è una meravigliosa e disperata fauna di autori, non sempre giovanissimi, che si mangiano la vita pur di fare il film. Qualche esempio: Tu devi essere il lupo, Le ferie di Licu (entrambi di Vittorio Moroni), L’estate di mio fratello (Pietro Reggiani), Il vento fa il suo giro (Giorgio Diritti), Il vento, di sera (Andrea Adriatico), Il dono (Michelangelo Frammartino), I cinghiali di Portici (Diego Olivares), Apnea (Roberto Dordit), Il rabdomante (Fabrizio Cattani), Nazareno (Varo Venturi). Più il caso particolare di Sangue - La morte non esiste (molto indipendente ma assai sostenuto dall’“energia” di Libero De Rienzo ed Elio Germano) e di altre piccolissime produzioni che vanno da Come l’ombra, di Marina Spada, a L’isola, di Costanza Quadriglio (bravissima, per altro, nel documentario Il mondo addosso). Sono registi che non si possono giudicare con sicurezza, vista l’aborme sproporzione tra desiderio e mezzi, ma le loro opere, pur in una totale libertà e nella difficile possibilità di raggruppamento, sembrano avvicinarsi più al realismo, al sociale, all’impegno ed alla serietà, che alla comoda generazionalità dei loro più furbi e fortunati quasi colleghi. Quasi che il successo sia sinonimo di annullamento ed omologazione a temi e stile.

In mezzo a queste due sponde si istalla la generazione, più o meno indipendente, che dovrebbe trasformare e riportare in auge il tanto caro cinema italiano. Certa critica l’ha definita, non a caso, “La meglio gioventù”, nel libro omonimo che Marsilio ha pubblicato nel 2006. Nel nucleo di questo movimento, senza centro e senza organizzazione, è certamente visibile un’insofferrenza verso la strada comoda che porta al multisala. Ed è rintracciabile un’idea di cinema alla caccia confusa di una nuova forma che tiene bene a mente (forse troppo) la lezione del grande cinema italiano del passato. Ognuno pensa per sé, ma questo non è necesariamente un limite. Soprattutto se questo è capace di reagire efficacemente con l’esistenza sociale che è comune a tutti gli altri, colleghi e non colleghi. Quando Moretti fece Ecce Bombo non parlò certo dei ragazzi di un villaggio arabo, ma il suo film fu capace di descrivere, attraverso un sentire intimo ed un linguaggio pesonalissimo, tutta la generazione che assisteva al tramonto di un’epoca.
Finora non c’è stato il film generazione, modello, il film traino capace di portarsi dietro tutto il resto, e di spianare la via a un collettivo sciolto che non aspetta altro che una strada. E non è forse questa la causa di esperimenti o contrazioni formali che poi portano al fallimento (speriamo costruttivo) dei giorni veneziani?
Pensiamo all’effetto “meglio gioventù” (nel senso giordaniano della definizione) nel cinema dei nostri anni. Quel viaggio italiano di colori e bravi ragazzi, racconatato quasi per caso a Cannes, ha condotto cinema e tv italiani al ripasso leggero della nostra storia contemporanea. E se questo è un dato positivo c’è di negativo il fatto che si tratta di una Storia piena di date ed effetti ma che non mette in discussione né approfondisce nulla. Romanzo Criminale e Mio fratello è figlio unico ssono decisamente figli di La Meglio Gioventù (tutti e tre infatti sono sceneggiati dal moderatismo di Rulli e Petraglia) e servono al cinema italiano per riscoprire il piacere della sala affollata ma non servono a smuovere le coscienze sotterrate del nostro popolo confuso. Né a dare ai giovani la conoscenza storica che non posseggono. Una recente ricerca statitistica ha da poco evidenziato che alla domanda: “Cosa è successo a Bologna il 2 Agosto 1980?” quasi tutti i giovani hanno risposto: “Boh, non lo so”. La bomba che esplode nel pirotecnico e gagliardo film di Placido (quella appunto che sconvolse il capoluogo emiliano e che ha segnato profondamente la già sanguinosa storia del nostro paese) è un fuoco d’artificio che serve a rafforzare l’estetica già ricca di un film poliziesco pieno di belle facce e valida fotografia. Ma che nulla aggiunge sulla strage di Bologna. Nemmeno come imput per qualche vaga domanda. E’ una rete invisibile nella quale sembra essere caduto anche Andrea Porporati, che improfuma di Sud e Nord, di buoni e cattivi, l’ennesimo inter-rail del tempo, dal titolo Il dolce e L’amaro. Che poi, a pensarci bene, questo titolo potrebbe essere proprio il sottotitolo della filmografia di Stefano Rulli e Sandro Petraglia: se volete un racconto di amarezza bisogna che vi becchiate anche tanta dolcezza. Ed è per questo che quando vediamo un film come Guido che sfidò le Br (di Giuseppe Ferrara) rimaniamo entusiasti. Perché è film doveroso, necessario per tutti, al servizio della Storia e dei giovani. Anche se è un film carico di difetti e di discutibile interpretazione dei fatti. E’ un film su un preciso, delicato, ed imponente fatto storico, un film che merita dibattito, ritorno e riflessione. E’ un film di impegno civile come ce ne sono stati di grandiosi nella filmografia italiana. Pensiamo a Petri e Rosi e vorremmo che il prossimo Marra gli somigliasse di più. Quello su Guido Rossa, il sindacalista della Cgil ucciso dalle BR nel ’79, è un film uscito d’estate in due sole sale in una città come Roma. E’ un film che ha visto solo chi già sa tutto sull’argomento. Purtroppo.

A margine di queste tre realtà esistono altre esperienze cinematografiche che contribuiscono a mantenere in vita (su un medio-basso profilo) il nuovo (non nuovo) cinema italiano. Esistono film di indiscutibile fattura (commedie, semplici storie, ritorni al genere e biografie), che meritano consenso e partecipazione anche se non vanno oltre loro stessi. La ragazza del lago (dell’esordiente Andrea Molaioli, unico film italiano veramente applaudito a Venezia) fa parte di questo gruppo, come Non ti muovere di Sergio Castellitto, o Piano, solo, ultimo pregiato film di Riccardo Milani. Ci sono vari esempi di questo tipo, di un cinema che anche nei casi più fortunati è limitato a se stesso e non esportabile. Ci sono poi autori già consacrati che fanno degnamente il loro mestiere senza preoccuparsi di modificarlo per chi verrà dopo. Il Tornatore de La Sconosciuta e il valido Salvatores di Quo Vadis Baby pensano ad affinare il loro mestiere e a sostenere la loro candidatura a pezzi grossi della nostra storia del cinema. E in nessun posto sta scritto che debbano mettersi a disposizione della società. Perché non esiste nessun presupposto teorico universale per chiunque decida di avventurarsi in un film. E’ ovvio che il processo creativo debba essere svincolato da qualsiasi imposizione preordinata. Virzì fa commedie perché sono la cosa che probabilmente sa fare meglio. Se va a cercare nel costume del presente, e nelle garanzie offerte dalle formule della commedia all’italiana la fortuna dei suoi film, chi scrive è più contento, ma poi ognuno fa e faccia le sue scelte. Bisognerebbe chiedersi, per sciogliere i nodi e i dubbi costanti sul cinema italiano, qual è lo scopo, oggi, del cinema italiano stesso. E se è ancora opportuno parlare di cinema italiano in un contesto storico-sociale-politico in cui le distanze (non solo geografiche) si sono drasticamente ridotte. Sono ancora in un rapporto paragonabile a quello che c’era negli anni sessanta le varie cinematografie europee? E se si, qual è la grande differenza tra il giovane cinema italiano e quello francese? O quello inglese? Uno tra i film più importanti degli ultimi anni è stato realizzato dal maestro greco Costa Gavras: Il cacciatore di teste. E’ un film politico, sul precariato e sull’individualismo occidentale, diretto magistralmente da un autore greco di certo non alle prime armi. E la magia del film che più ha stupito Venezia, quel Le graine et le mulet che ha ottenuto il premio speciale della giuria, va a rinsavire l’orgoglio del cinema francese attraverso il talento di un regista di cultura tunisina: Abdellatif Kechiche. E, ancora, il rinnovamento del cinema tedesco passa anche per le pellicole degli immigrati turchi.

Ma prim’ancora del rapporto tra Italia, Europa, Usa ed Oriente, bisognerebbe chiedersi se il cinema serve ancora a cambiare la Società. E se la società italiana è davvero mai cambiata attraverso il cinema. Veramente il Neorealismo italiano aiutò il paese ad uscire da quel terribile momento? Non fu forse quel momento stesso che aiutò il cinema italiano a diventare grande ed immortale? E non era quella, forse, un’età in cui il cinema aveva ancora una forza che oggi, anche per colpa del suo incredibile sviluppo e dei suoi talenti sparsi per il mondo e per la storia, forse non ha più? Quando Todd Haynes costruisce quel maestoso film su Bob Dylan, non compie altro che un atto d’amore egositico verso un uomo per cui ha provato grande passione. E che vuole raccontare attraverso l’arte che più gli è congeniale: il cinema, strumento che più di ogni altro gli offre garanzie espressive. Se trova un linguaggio nuovo, personale e vincente è per amore di se stesso (e forse del cinema) e non per amore di chi quel cinema lo userà.

Tra non molto torneranno in sala Sorrentino, Garrone e Mereu con tre film assai promettenti. Sono in attesa gli appassionati di cinema e gli appassionati di realtà. Se anche solo una parte dell’utenza venisse soddisfatta sarebbe già un grande risultato. Se poi sia i primi che i secondi dovessero uscirne sazi, allora quello, secondo noi, sarebbe il capolavoro che aspettiamo: l’osmosi tra il cinema e la vita.

[Settembre 2007]


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