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Ripensando alla stagione teatrale 2015-16

Pubblicato il 9 ottobre 2016 da Monia Manzo


Ripensando alla stagione teatrale 2015-16

Tra gli spettacoli di questa passata stagione ce ne sono alcuni che non hanno avuto un’immediata risposta critica da parte della nostra redazione, ma che, ripensati a distanza, hanno lasciato un segno senza quasi che noi ce ne accorgessimo. Segno di scelte stilistiche interessanti, ma anche testimonianza del lavoro fatto dalle compagnie e dagli attori che ne erano protagoniste.
Ora che i riflettori si sono spenti sulle programmazioni dei teatri e poco prima che una nuova stagione prenda corpo, pensiamo sia opportuno recuperarne il ricordo per il coraggio che hanno dimostrato e per la volontà di rompere la monotonia e la ripetitività del panorama italiano teatrale, oppure per la presenza di protagonisti importanti o di talenti in fase emergente:
Lear Giuseppe Dipasquale al Globe di Villa Borghese
Calderon regia Federico Tiezzi al Teatro Argentina
Ogni volta che guardo il mare regia di Paolo Triestino al Teatro Lo Spazio
Darkness regia di Roberto D’Alessandro Alla Cappella Orsini
Otto regia Antonio Serrano

Mariano Rigillo è Lear. Su questo concetto vorremmo essere abbastanza chiari. Va reso merito a Giuseppe Dipasquale per essersi servito di uno dei più sensibili attori del teatro italiano che ha dovuto sviscerare un personaggio delicato e ruvido al contempo, come lo sono tutti i personaggi più complessi e affascinanti del teatro shakespeariano.
Per il resto diciamo che Rigillo ha potuto usufruire di tutta la sua vasta esperienza di attore, attingendo in modo encomiabile dal suo repertorio. Non è un caso infatti che si noti, in alcuni frangenti, una certa distanza fra lo stile recitativo del protagonista e quello del resto della compagnia, composta da altri interpreti di livello piuttosto alto: Filippo Brazzaventre, David Coco, Sebastiano Tringali, Anna Teresa Rossini, Giorgio Musumeci.
Non troppo convincente, seppur di tendenza "transgender" la scelta di far interpretare le due torbide sorelle, Regan e Goneril a due uomini femminei: è noto infatti, secondo i critici più accreditati del Bardo, come le due figlie "ingrate" di Lear possedessero un crudele istinto maschile, ben celato ma poi in grado di emergere prepotentemente durante l’evolversi della tragedia.
Nel complesso lo spettacolo prodotto dallo stabile di Catania dimostra la volontà di poter unire tradizione a innovazione, attori del grande teatro a quelli delle nuove generazioni, combinazioni che denotano una certa apertura rispetto ai soliti spettacoli in cui più che rappresentare Shakespeare lo si mima.

Altro spettacolo degno di essere ricordato è Calderon, di Pier Paolo Pasolini, con la regia di Federico Tiezzi, ormai acclamato come uno dei registi e drammaturghi italiani più validi nella nostra scena teatrale.
Prodotto dal Teatro di Roma e dal Teatro della Toscana, questo Calderon potrebbe essere definito uno spettacolo destinato alla classe borghese contro la classe borghese.
Ci incuriosisce questo strambo gioco di ruoli, anche se ne apprezziamo il coraggio artistico, visto che l’impianto scenico e drammaturgico del Calderon ha complessità che ne fanno una delle opere più mature, nonché un esempio di sperimentazione e di grande innovazione per quegli anni.
Non è un caso che per decenni Pasolini sia stato considerato un outsider del mondo teatrale, troppo complesso per essere messo in scena: non un drammaturgo, ma uno scrittore prestato al palcoscenico.
Il fulcro del Calderon è l’utilizzo dell’onirismo teatrale, per attraversare più storie di classi sociali, che si contengono l’un l’altra: ogni volta la giovane Rosaura si sveglierà in una sorta di "sogno lucido" che le permette di vivere una storia aristocratica, proletaria e medioborghese, fino alla non felice conclusione, profetica ma realistica come la maggior parte delle opere pasoliniane.
Va sottolineata la maestria di Tiezzi nel saper astrarre un testo di per sé surreale trasformando dialoghi e monologhi in vere e proprie visioni d’insieme, in cui le profonde intuizioni pasoliniane vengono svelate e si fanno discorsi anche grazie ad ottimi attori, egregiamente diretti nei vari stili delle tre storie che lo compongono.

Liberamente ispirato a Orlando di Virginia Wolf, Otto con la regia di un energico Antonio Serrano e con l’adattamento drammaturgico di Roberta Calandra, si dimostra essere uno di quei gioiellini teatrali, che fanno bene non solo al cuore ma sopratutto alla vista di un pubblico bisognoso di emozioni che non siano suscitate in modo stucchevole o banale.
Il cast, composto da 4 attori, è all’altezza della profondità e dell’estetica della scrittura, basata su ben strutturati dialoghi intrisi di filosofia, poesia, arte, ma soprattutto amore, inteso nell’accezione più universale del termine.
Quattro coppie, potenzialmente le stesse anime, si rincorrono nel tempo dando vita ad un cerchio di amori e reincarnazioni senza limiti e distinzione di orientamento sessuale: si parte dalla Rivoluzione Francese, per poi passare all’Inghilterra vittoriana, ai lager nazisti e all’epoca attuale, quella dei media, attraverso una coppia che lavora nel mondo dello spettacolo, lei una regista più che trentenne lui un giovanissimo attore.
In un girotondo di quattro incantevoli storie, le passioni del cuore svaniscono come fantasmi per poi rinascere sotto forme di vita diverse ma tutte legate dallo stesso fil rouge, evocato da un enorme letto sulla scena, dove confessioni, segreti sfidano il tempo e lo spazio, superando la morte e la caducità dei corpi. Perché non poter credere che la nostra vita non sia che uno dei tanti momenti in cui vivere l’amore?
In un teatro delizioso ma dagli spazi limitati Antonio Serrano è in grado di creare dei veri e propri mondi paralleli, grazie ad una regia equilibrata e meticolosa.
Otto può essere definito una delle sorprese più gradite della stagione 2015-2016 del teatro della capitale.

Altro spettacolo che và lodato invece per la sua originalità e verve è Darkness:
Nel Giugno 1816 durante un’estate che Mary Shelley descrive “umida ed ostica”, Lord Byron ospitò a Villa Diodati, una dimora ginevrina oltre l’affittuario, altri grandi nomi della letteratura inglese: Percy Bysshe Shelley, John William Polidori, Mary Godwin (futura Mary Shelley), e la sorella di quest’ultima, Claire Clairmont.
In una delle romantiche notti tempestose, humus perfetto ai fini della creazione (i cinque artisti partorirono alcuni dei più grandi romanzi dell’orrore) fu di certo la lettura, tra le altre, di Fantasmagoriana, una raccolta di racconti gotici (tra cui il celebre La sposa cadavere), che ispirò gli scrittori alla stesura di propri racconti, divenuti poi pietre miliari della letteratura horror: Frankenstein di Mary Shelley, e Il Vampiro, di Polidori.
Darkness appare come una sorta di viaggio dell’orrore: un crescendo terrorifico di racconti, supportato dall’ebbrezza donata dal laudano. Un labirinto di chiaroscuri storico-letterari, tra realtà e finzione, in cui i celebri protagonisti sono impersonati da un gruppo di moderni avventori a Villa Diodati, duecento anni dopo quel giugno 1816.
Gli attori si si trasformano senza nessuna volontarietà nei cinque personaggi, avvicinandosi ineluttabilmente al male, che cova nelle viscere dell’essere umano.
È l’oscurità a prendere le redini del gioco, a condurre i cinque attori lungo sentieri impervi a strapiombo sull’abisso oscuro dell’anima.
Le influenze funeste della notte iniziatica al male hanno conseguenze inevitabili sui giovani poeti, destando sentimenti sconvolgenti, che li avvicinano ai più cupi desideri.

Altro spettacolo molto promettente, Ogni volta che guardi il mare è andato in scena al Teatro Sette-diretto da Francesco Verdinelli- e ora di nuovo in programmazione nella nuova stagione teatrale, scritto dalla giornalista Mirella Taranto, adattato e diretto da Paolo Triestino e interpretato da una intensa Federica Carruba Toscano.
Il monologo è dedicato a Lea Garofalo, uccisa dalla ‘ndrangheta per mano del suo compagno nel 2009, all’età di 35 anni, per essersi opposta al sistema delle cosche e delle sue assurde regole di vendette e criminalità in cui erano invece avviluppati la famiglia di origine e il compagno. E un omaggio alla sua testimonianza e a quella di sua figlia Denise. Grazie a quest’ultima per l’omicidio della madre in Corte d’Assise sono stati dati 25 anni di reclusione e cinque ergastoli. Uno di questi è stato dato a suo padre.
La direzione di Paolo Triestino, avvezzo alla rappresentazione di esilaranti commedie, ci ha stregato, grazie sia alle scelte di regia, che all’attenzione per un testo tanto sensibile verso mondi che spesso vengono sottovalutati e trascurati.
In questo caso il testo drammaturgico oltre a raccontare con veemenza l’ennesima assurda storia di mafia, piaga inestinguibile nel nostro Bel Paese, la raffigura soprattutto nella sua crudeltà dal punto di una donna semplice e forte, moglie di un mafioso, che si oppene al sistema per sottrarvi in particolar modo la figlia.
Quello che lascia è un vero e proprio testamento attraverso una lunga e toccante lettera, che fa vivere alla figlia a ritroso tutta la loro vita e rapporto di grande amore e solidarietà.
Lea subisce la scomunica della famiglia ed è costretta a fuggire con la bambina e a difendersi diventando una testimone di giustizia, a causa del suo deciso rifiuto di portare la figlia in carcere a far visita ad un padre che vorrebbe far apparire il suo mondo di sangue e morte una normale condizione di vita.
Una fuga che le costerà un esilio di anni, di privazioni e di isolamento per sé e per la figlia, che crescerà nel nord nascondendosi continuamente, costretta sin da piccola a un’altra identità.
“Non desiderare mai che una spugna cancelli il passato perché non esistono solventi per il dolore. Puoi solo attraversarlo e capovolgerlo e, se puoi… cerca di salvare sempre quello che l’amore, qualunque amore, è stato in grado di farti fare”.
Ogni volta che guardi il mare è anche la storia di una figlia che sente il dovere di perpetrare un’azione di responsabilizzazione del mondo nei confronti di donne coraggiose come la madre, chiedendo giustizia con caparbietà e con la consapevolezza di voler perdonare l’assenza, perché dietro non c’era altro che il desiderio di dare senso ad una vita altrimenti perduta.



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