Scarpette nere - Pensieri sparsi su Black Swan

Da Scarpette Rosse (di Michael Powell ed Emeric Pressburger, 1948) a Eva contro Eva (di Joseph L. Mankiewicz, 1950), il cinema sembra subire, da sempre, una fascinazione perversa (e non ricambiata) per il mondo del teatro, caleidoscopico paradigma di ogni crudeltà e ambizione, e metafora per eccellenza della commistione morbosa tra arte e vita (si pensi anche al capolavoro cronemberghiano, M. Butterfly, 1993). Non fa eccezione Black Swan, ultima fatica del visionario Darren Aronofsky, che vira la favola triste del cigno bianco nei toni del rosso cupo (del melò) e del nero (dell’horror). Nel 2008 il regista trionfò al Lido con The wrestler, amaro ed asciutto resoconto di una fine annunciata, con un decadente Mickey Rourke, acciaccato pugile sul viale del tramonto, che si aggirava solitario per le strade di un’America sporca e squallida (anche qui i riferimenti cinefili non mancavano, da Città amara di Huston agli ultimi Rocky, passando per la desolazione urbana dello Scorsese di Taxi driver).
Se la leggiadra e delicata Natalie Portman è l’immagine speculare del wrestler appesantito dagli anni e dalle botte, con Black Swan Aronofsky non rinuncia a rappresentare un’altra figura votata all’autodistruzione, stavolta dominata da un’ossessione narcisistica e autopunitiva, che la conduce a percorrere d’un fiato quella discesa all’inferno che si concluderà in una sorta di martirio. Saltando di continuo da un registro all’altro, il regista saccheggia senza colpo ferire miti e motivi dell’immaginario cinematografico e letterario (da Dottor Jeckill e Mr. Hyde a Dorian Gray), affastellando convulsamente toni e temi in un parossismo emotivo dall’intensità sovraccarica e soffocante. In un’aura di morte e consunzione (la vedette in declino di Wynona Ryder), esplorando tutto il ventaglio dei possibili eccessi (dall’autolesionismo alla droga, dall’anoressia alla sessualità repressa), Aronofsky mette in scena la vicenda di Nina, ballerina fragile ed insicura, inghiottita dal desiderio totalizzante di diventare la stella del nuovo allestimento de Il lago dei cigni del New York City Ballet.
Già la versione originale della fiaba musicale di Tchaikovsky offriva non pochi spunti psicanalitici (accentuati nel celeberrimo allestimento di Nureyev, che ruba un po’ di spazio ai due cigni per accentuare il ruolo del principe titubante), e Aronofsky si colloca al di là di ogni possibile realismo (il che in sé non sarebbe necessariamente un male, ma già il delirante L’albero della vita era opera sua), costruendo un thriller anomalo e vibrante di angoscia. In un mondo che trasuda ambizione e sembra alieno da ogni umano sentimento (dall’ambiguo coreografo Leroy alla conturbante Lily nessuno sembra salvarsi), Nina, soffocata, come se non bastasse, dalle attenzioni di una madre possessiva e frustrata, scivolerà in un delirio paranoico senza ritorno, che le offrirà tuttavia la necessaria carica per trasformarsi definitivamente nella sua metà oscura, quell’angelo del male che finirà per divorarla.
Se la pellicola è tutta giocata sui temi del doppio, dell’ambivalenza fra polo negativo e polo positivo (altro topos cinematografico, da Lo specchio scuro a Inseparabili, da La morte corre sul fiume a Mullholand drive), dello scontro fra i demoni e gli dei che agitano lo spirito, infinitamente riprodotto in un film fin troppo rivelatore e schematico (catarsi compresa), ciò che resta impresso è l’attenzione maniacale ai corpi, o meglio al corpo di Nina, una vibrante ed intensa Natalie Portman. Le lacerazioni dell’anima si riproducono con cadenza perfetta in un fisico da un lato oggetto di infinita cura, plasmato dall’allenamento quotidiano e strumento stesso dell’espressione artistica, dall’altro ripetutamente ferito e infine colpito a morte, oggetto primo di una collera invincibile e distruttiva. È il corpo stesso che subisce una metamorfosi quando Nina interpreta Odile, il cigno nero che sottrae amore e linfa vitale alla gentile Odette. È il corpo che risponde docilmente o si ribella allo sforzo fisico, nello stridere delle giunture, nell’accavallarsi di nervi troppo tesi, nelle unghie che si spezzano, nel sangue che scorre, nelle mani che si incastrano in porte chiuse con furia selvaggia. Nina (imprigionata dal proprio doppio come Odette dal malvagio Rothbart), in preda ad una follia che si traduce visivamente negli eccessi cromatici ed espressivi, in un cortocircuito di incubi e ossessioni senza via d’uscita, tortura il proprio corpo come fosse un ente estraneo e ribelle, intimamente conosciuto, ma in fondo mai posseduto, un oggetto appunto, su cui sfogare la frustrazione di un’esistenza non vissuta.
Come in ogni parabola tragica che si rispetti, in un’atmosfera ammaliante e satura fino all’ultimo respiro, la danzatrice seguirà il suo destino. Tuttavia, malgrado la tensione drammatica non venga mai meno, il risultato, schiacciato dalle troppe ambizioni di un regista che, come spesso gli capita, non risparmia su nulla, appare spesso disomogeneo, e in fondo, esauritasi la fascinazione per la coda vorticosa del cigno nero, un po’ poco credibile.
