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SERATA FOKINE-NIJINSKY

Pubblicato il 18 ottobre 2002 da Alessandro Borri


SERATA FOKINE-NIJINSKY

La serata che il Teatro dell’Opera di Roma ha dedicato alla grande coppia di coreografi russi che in collaborazione con Diaghilev cambiarono forme e modi del balletto spingendolo nel calderone ribollente della modernità, pur nella sua patina un po’ archeologica permette di istituire un confronto sul campo notevolmente stimolante. Da una parte la Shéhérazade di Michel Fokine (1910, il tempo in cui il petroburghese metteva in scena anche il primo Stravinsky di L’uccello di fuoco e Petruška; ricostruzione di Andris Liepa): voluttuoso trionfo di esotismo art decò, di sensualità mediorientali seminali per come sarebbero state ritenute dalle fantasie hollywoodiane degli anni seguenti. Appena il visir si allontana l’harem si scatena in sfrenate libertà dinamiche, e l’altera Shéhérazade (Ilze Liepa) si fa conquistare da un aitante bellimbusto (Nikolai Tsiskaridze) fascinoso come un Valentino. E così i lussureggianti timbri orchestrali di Rimsky-Korsakov trovano un rutilante corrispettivo nei voli reiterati di Tsiskaridze e nel luttuoso atteggiarsi della Liepa. Pochi anni di distanza (1913) per le due celebri creazioni del divino Vaslav Nijinsky (a cura di Millicent Hogdson e Kenneth Archer), ma sembra un altro mondo. Alla spettacolare evidenza fisica della partitura di Fokine, in Jeux si sostituisce - nel rapporto triangolare tra i tennisti interpretati da Fracci-Barberini-Hubbe - un’enigmatica consequenzialità di gesti che ormai nulla hanno a che fare con le olimpiche euritmie del balletto classico. Sotto l’egida post-wagneriana di Debussy irrompe il modernismo, in un fitto susseguirsi di messaggi in codice corporale, fino allo stupore metafisico che sospende il finale nel rapporto con un fuori campo imperscrutabile. Quanto alla proverbiale Sagra della primavera, troppo si è dibattuto sulla sua dirompente, “scandalosa” novità per pensare di dire qualcosa di nuovo. Riconsiderando però sul più tranquillo palcoscenico romano l’opera di Nijinsky-Stravinsky, a quasi 90 anni dalla sua leggendaria prima, non si può non rimanere comunque basiti di fronte al profetico coraggio del ballerino di Kiev nel terremotare alle radici il concetto di bellezza caro ai borghesi acculturati della sua epoca. E anche oggi il rito sacrificale dell’eletta (Deborah Bull), col suo sorgere e ritornare alle profondità della terra, assorbendone selvagge energie cinetiche, col suo tarantolato primitivismo che costeggia i territori inusitati del delirio e della trance pur mantenendo un saldo controllo coreografico, è una testimonianza immortale del genio di Nijinsky, puro folle che qualche anno dopo si sarebbe convinto di essere dio.

[ottobre 2002]


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