Shakespeare al cinema - The Tempest (passando per Psycho)

Passato indenne attraverso adattamenti classici e ibridazioni di ogni genere, riletture in chiave modernista e riflessioni metacritiche sul rapporto mai risolto fra arte e vita, Shakespeare è davvero un uomo per tutte le stagioni, tanto da essersi certamente guadagnato la palma del classico più saccheggiato dagli autori di soggetti cinematografici, fino al nuovissimo The Tempest di Julie Taymor, film di chiusura dell’ultima Mostra di Venezia e prossimamente in uscita nelle sale italiane.
Impossibile uno sguardo d’insieme anche soltanto approssimativo all’infinita filmografia shakespeariana, quasi un genere a sé, come il noir o la commedia sofisticata, teatrale per intrinseca necessità, poiché le partiture del poeta sono troppo pregnanti per essere stravolte, ma anche tanto potenti da permettersi di accogliere e amalgamare le fantasie del più originale dei registi. Si comincia naturalmente dai classici, Laurence Olivier e Orson Welles su tutti, limpido e colto, con improvvise svolte psicanalitiche il primo, barocco e oscuro, selvaggio, il secondo, fra gli anni della guerra e gli ultimi ’60.
Si passa poi, di necessità, per Il trono di sangue (1957) di Akira Kurosawa, che trasporta l’ambigua scalata al potere di Macbeth al tempo delle lotte nel Giappone medievale, per poi approdare con Ran (1985), capolavoro tardo, colorato e grandioso, alla rilettura del Re Lear. Si arriva poi a tempi più vicini ai nostri, con il monumentale Hamlet (1996) di Kenneth Branagh (forse il migliore dei suoi), che tenta di riportare in scena i fasti del teatro elisabettiano, affidandosi ad una scenografia magniloquente e ad una recitazione impeccabile; ma anche con il fumetto pop Romeo+Giulietta di Baz Luhrmann (1996), legato ad un’estetica come sempre sovraccarica e abbagliante. Innumerevoli poi gli esperimenti che giocano al teatro nel teatro, da Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995), ancora di Branagh, al godibile Shakespeare in love (1998), in cui, per una volta, il protagonista della storia, non a caso d’invenzione, è proprio il Bardo. Molte poi le rivisitazioni che mescolano temi e trame a riflessioni più o meno riuscite sulla società contemporanea e sul ruolo dell’arte (dal controverso Re Lear di Jen-Luc Godard all’interessante Riccardo III - Un uomo, un re di Al Pacino).
Impossibile, come si diceva, ricordare tutto, ma quantomeno andrebbero citati anche West Side Story (1961), il musical di Robert Wise e Jerome Robbins, che trasporta la passione di Romeo Giulietta (qui Tony e Mary) fra le faide familiari che insanguinano la New York degli ani ’50; e l’omaggio del grande John Ford, che fa rivivere nientemeno che il monologo dell’Amleto (recitato prima dall’attore girovago e poi, dopo che questi è colto da amnesia, dal tisico e disperato Doc Holliday) fra i tavoli del saloon di Sfida infernale (1946).
Ma tutto questo ormai è storia. Ed eccoci, di nuovo, a The Tempest, ultima fatica di Julie Taymor, poliedrica regista teatrale e cinematografica, originaria del Massachussetes e legata al Bardo da una lunga serie di adattamenti per il cinema e la televisione (fra cui anche un film per la televisione tratto proprio da La Tempesta). Sotto il segno di Shakespeare si consuma l’esordio cinematografico della Taymor, che nel ’93 realizza il non esattamente memorabile Titus, il cui merito maggiore sembra quello di essere l’unica versione filmica del Tito Andronico, tragedia crudele ai confini del macabro, scritta dal poeta in giovane età. Il film, a sua volta adattamento di un’opera portata in scena a Broadway, vorrebbe essere una sorta di riflessione sulla violenza, ma sfocia troppo spesso nel cattivo gusto in un’ambientazione che mescola l’antica Roma agli scenari attuali (l’Eur fra i vari). Dopo Frida, biopic dedicato alla struggente vita della pittrice messicana Frida Kahlo, nel 2007 la regista abbandona di nuovo il teatro inglese, questa volta per i Beatles, con Across the universe, il suo film forse più amato, musical affettuoso e nostalgico, ambientato nell’America della contestazione, dove vita e musica si intrecciano e le canzoni della mitica band di Liverpool fanno da colonna sonora. Una sorta di ritorno alle origini dunque con The Tempest, adattamento della tragedia già portata sullo schermo, fra gli altri, da Greenaway con L’ultima tempesta (1991), opera esteticamente sovraccarica, ma per molti versi interessante. I registi che scelgono di tradurre Shakespeare al cinema si sono sempre chiesti che cosa potessero offrire in più ai testi del grande drammaturgo, in più rispetto al teatro si intende. La risposta pare ovvia se si pensa alle epiche battaglie dell’Enrico V, al bosco fatato di Sogno di una notte di mezz’estate o alla foresta in movimento che minaccia il trono di Macbeth: il cinema ha offerto un supporto visivo all’inesauribile flusso immaginativo del drammaturgo, mettendogli a disposizione ciò che il teatro, o quantomeno quello del XVI secolo, era stato costretto a negargli. Ci si potrebbe domandare se le pagine del poeta da sole non provvedano meglio a se stesse, in quanto intrinsecamente dotate di una tale forza immaginifica da non aver bisogno del supporto delle immagini, ma in ogni caso è proprio questo (e solo questo purtroppo) che la Taymor offre loro. Al di là degli spunti in chiave femminista e critica, il film si gioca tutto sulla resa espressiva dell’ambientazione e sulla caratterizzazione dei personaggi, mantenendosi per il resto fedele al testo originario e alla scansione delle varie scene. Prospero, il duca di Milano spodestato dal fratello Antonio, diventa Prospera nell’interpretazione di Helen Mirren, donna ostinatamente votata a recuperare il potere ingiustamente usurpato, pronta anche usare l’amatissima figlia Miranda come pedina del suo scaltro gioco. La vendetta a lungo progettata finalmente può consumarsi quando i vecchi nemici, scampati ad un naufragio da lei stessa provocato con l’ausilio delle sue arti magiche e dello spirito Ariel, approdano sull’isola del suo involontario esilio. Alla fine tuttavia anche l’amore saprà trovare il suo spazio. Se nel film di Greenaway il personaggio di Prospero assumeva centralità assoluta, qui, benché la forza drammatica del personaggio del duca (qui duchessa) faccia da filo conduttore fra le fila della trama, la recitazione è corale e la chiave del film è ancora una volta affidata unicamente allo sguardo visionario della regista, che costruisce grandi scenografie postmoderne, geometriche ed essenziali, riempite dalla forza cromatica delle luci e dei colori, ora cupi, ora sgargianti. Ma il film risulta in fin dei conti impersonale, freddo e artificioso, la recitazione in alcuni casi decisamente sopra le righe e il Calibano di Djimon Honsu finisce per essere stereotipato e fin troppo in linea con la lettura attualizzante in chiave postcoloniale di quella che è forse l’ultima tragedia del drammaturgo. Il film della Taymor risulta innovativo soltanto in superficie, ma si rivela in realtà incapace di uscire da un impianto tutto sommato classico, per di più sovraccaricato da effetti speciali ingombranti e nella maggior parte dei casi inutili (praticamente tutte le volte che è in scena Ariel, con esiti da videoclip). Il cinema non dovrebbe abbandonare la grande letteratura ma, come osservava Hitchcock è sempre difficile dire qualcosa di davvero nuovo su un testo o su un autore che tutti già hanno incontrato (non a caso Psycho era tratto da un romanzetto di quart’ordine). In questo senso, The Tempest, malgrado le ambizioni metacritiche della regista (c’è persino una citazione della scena del Settimo sigillo in cui i personaggi danzano sul crinale della collina), rappresenta certamente un’occasione mancata.

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