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Sono il numero quattro

Pubblicato il 18 febbraio 2011 da Alessandro Izzi
VOTO:


Sono il numero quattro

Nel 2004, in Taking lives, Caruso metteva in scena la storia di un serial killer che rubava l’identità delle sue vittime. La strada partiva da The silence of the lambs, naturalmente, ma si riempiva presto degli scenari apocalittici di Seven standosene placidamente nel sottobosco del prodotto di largo consumo. La regia tagliava con l’accetta le sequenze aggredendo lo spettatore ad ogni passo con suoni sinistri e zappate sui contrabbassi.
Nel 2005, in Rischio a due, il regista, che cambia genere, racconta la storia vera del mondo delle scommesse in America. Non è interessato tanto al mondo dei pronostici, però, quanto piuttosto alle psicologie dei suoi personaggi. In particolare al modo in cui le persone tendano a mangiarsi l’una con l’altra riconoscendosi tra loro quasi come immagini allo specchio. Quel che conta non è la febbre del gioco, ma la reciproca invidia nel vedere, da fuori, la vita dell’altro.
Nel 2007 il meccanismo degli specchi si sistematizza in archetipo narrativo con Disturbia che prende un altro serial killer o lo mette nella casa di fronte a quella dei protagonisti. L’assassino prende le vite, ma il bravo ragazzo che lo smaschera ruba frammenti di vita altrui dalla sua finestra sul cortile. Niente di grave, ma anche lui sta fuori, guarda la vita dall’esterno e un po’ invidia gli altri. La sua posizione è a un tempo sociale ed esistenziale. È agli arresti domiciliari, ma il suo stare fuori gioco gli deriva dal lutto per la morte del padre di cui si sente responsabile.
Nel 2008, sempre con Shia Labeouf, l’idea dell’osservazione dall’alto e dell’impossibilità per lo sguardo a partecipare alla vita del mondo diventa sistemica in Eagle eye, a tutt’ora il frutto più maturo del regista forte anche del patrocinio spilberghiano. Tutto è rubato da uno sguardo superiore che coordina le vite degli altri, mentre l’identità del protagonista si confonde con quella del gemello.
Oggi Sono il numero quattro ci racconta di un alieno che, per sfuggire alla persecuzione di alieni dall’improbabile nome di Mogodoriani, cambia identità e città ad ogni soffio di brezza. La fuga è l’unica realtà vera che conosce, mentre il mondo degli altri lo può guardare solo a distanza, dalla sua doppia esclusione che gli deriva dall’essere un extraterrestre e un fuggiasco. Così, tenendo il profilo basso di chi aspira all’invisibilità (come il killer di Taking lives), John Smith (nomen omen dell’ultima identità presa) si limita a guardare il mondo mentre il suo tutore cancella la sua immagine dagli occhi degli altri. E le scene più belle del film son quelle che acutizzano il senso di estraneità del personaggio e il suo bisogno di specchiarsi negli altri. Come quella delicata dell’invito a cena in una famiglia per una volta normale che si prende il suo tempo per mangiare e per giocare. O come quella in cui Sam, l’amico del cuore, gli racconta di quanto sia brutto vivere nascondendo agli altri il proprio sentimento e le proprie convinzioni.
Strano che nessuno abbia visto ancora quanto coerente è stato, sin qui, il disegno registico di Caruso e quanto tutte le sue pellicole, pur diverse per ispirazione e genere frequentato, riportino alla luce sempre le stesse ossessioni. Strano anche in virtù del fatto che queste preoccupazione narrative passano al vaglio di una lettura del genere che, come i personaggi messi in scena, guarda al mondo cinema da una posizione “altra”. I film di Caruso sono estranei come i suoi eroi pur nello sforzo costante di somigliare al già noto. Taking lives è un remake mal celato di Seven. Rischio a due mima L’avvocato del diavolo con cui condivide anche Al Pacino. Disturbia è, dichiaratamente, una ripresa di La finestra sul cortile. Mentre Eagle eye si chiude nelle stesse stanze di 2001: odissea nello spazio.
Di tutto questo si è, però, accorto Michael Bay che, ossessionato anche’gli dall’idea di un cinema che sia sintesi estrema del già visto, nell’affidargli questo Sono il numero quattro ha puntato su un regista che fosse davvero in grado di fare sì un remake, ma di farlo di un film mai girato. Perché questo è Sono il numero quattro: il reboot di un prodotto molto anni ’80 un po’ televisivo ed un poco cinematografico. Una sorta di Transformers redivivo, ma senza i robot e coi ricordi di vecchie serie tv come Il principe delle stelle.
Un film personale, comunque, perché il regista, non si accontenta di assumere la posizione della fotocopia, perché nei suoi film, si ha l’impressione, permane sempre il sentimento di chi ha rubato, sia pur solo per lo spazio di una proiezione, l’identità di un altro film.
Sono il numero quattro non è il miglior film di Caruso. Ha pecche negli effetti speciali non sempre all’altezza delle richieste. Ha pecche nel ritmo troppo orientato verso il suo finale fracassone. Ha pesanti tare nel casting che abbina un poco espressivo Alex Pettyfer (John) ad un più umbratile (ma poco servito dalla sceneggiatura) Timothy Oliphant (Henri), da una slavata Dianna Agron (Sarah) ad un più aderente Callan McAuliffe (Sam). Eppure, al di là dei palesi difetti, mantiene una sua posizione nell’insieme della filmografia del regista. E conserva qualche elemento di interesse che potrebbe essere il punto di partenza per il prossimo, prevedibile episodio di questa nuova saga ancora ferma ai primi volumi.


CAST & CREDITS

(I Am Number Four); Regia: D.J. Caruso; sceneggiatura: Alfred Gough, Miles Millar, Marti Noxon; fotografia: Guillermo Navarro; montaggio: Vince Filippone, Jim Page; musica: Trevor Rabin; interpreti: Alex Pettyfer, Dianna Agron, Callan McAuliffe, Jake Abel, Timothy Olyphant, Teresa Palmer, Kevin Durand, Beau Mirchoff, Greg Townley; produzione: Bay film distribuzione: Walt Disney Italia; origine: USA, 2010; durata: 110’


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