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Sorry we missed you

Pubblicato il 4 gennaio 2020 da Matteo Galli
VOTO:


Sorry we missed you

Ottantaquattrenne ormai, Ken Loach è uno dei pochi registi ancora attivi per i quali si possa tranquillamente utilizzare il concetto di macrotesto: i suoi film sono immediatamente riconoscibili, a voler essere leggermente critici, essi risultano qua e là intercambiabili, ciò vale, soprattutto, per i (molti) film ambientati nel presente: da Riff Raff (1991) a Raining Stones (1993), da Ladybird, Ladybird (1994) a My Name Is Joe (1998), da Bread and Roses (2000) a Paul, Mick e gli altri (2001), da Sweet Sixteen (2002) a In questo mondo libero... (2007), da Il mio amico Eric (2009) a Io, Daniel Blake (2016), per citare i più celebri. D’altro canto la grandissima parte dei film di Loach dalla fine degli anni ’90 in avanti sono stati scritti dallo stesso sceneggiatore, ovvero da Paul Laverty, di una ventina d’anni più giovane del regista, per il quale vale, almeno al pari del regista, lo stesso discorso: macrotesto riconoscibile, qua e là interscambiabile.

I film della coppia presentano più o meno tutti la medesima impalcatura ideologica che potremmo definire di matrice rousseauiano-marxiana: gli esseri umani sono buoni, gentili, affettuosi, conflitti individuali dettati da gelosie, rivalità, ambizioni, ma anche soltanto, che so io, da amori tormentati non esistono, a un certo punto, però, gli individui sono costretti a scontrarsi con la società malvagia che non permette loro un completo anche se in fondo innocuo dispiegamento dei propri diritti elementari, concentrati nella gran parte dei casi nella sfera del lavoro, fattosi sempre più volatile, raro e incerto in un sistema capitalistico divenuto ormai completamente privo di regole.
Questo processo di deregulation ha subito nel Regno Unito, soprattutto dall’epoca in cui il primo ministro divenne Margaret Thatcher (stiamo parlando del Primo Ministro di più lunga durata dal 1945 a oggi: dal 1979 al 1990, 11 anni in tutto), una sensibile accelerazione, anche rispetto ad altri paesi europei, un deriva alla quale Loach, seppur con un certo sfasamento temporale (Riff Raff, il primo dei film elencati risale in fondo all’anno successivo alla fine dell’era Thatcher) si è opposto instancabilmente, aggiustando il tiro in base agli eventi per lo più infausti che negli ultimi trent’anni scarsi si sono verificati o accentuati: la fine delle garanzie sindacali, l’abbattimento del sistema sanitario, l’immigrazione, la precarizzazione del lavoro, la crisi del sistema bancario con il picco del 2008, che ancora in questo film sembra stare all’origine della serie di sventure che perseguitano la famiglia protagonista.

Anche in questo film, disperatamente tragico con rarissimi sprazzi di ironia (del resto il film è scandito da quattro dissolvenze in nero a marcare la struttura di una classicissima tragedia in cinque atti) è quello fra l’individuo (ovvero la microcomunità di cui egli fa parte) e la società che lo schiaccia. Il conflitto, si potrebbe dire, è giocato tutto su una moneta di scambio che è il tempo: per poter risultare sufficientemente performante e ottimizzare i guadagni, il protagonista Ricky, apparentemente emancipatosi da una lunga serie di lavori servili e sulla carta ma solo sulla carta divenuto autonomo, accetta di lavorare per un corriere divenendo schiavo non solo di un capo struttura in delirio di onnipotenza ma, soprattutto, di uno scanner che, per l’appunto, funziona come una implacabile clessidra, dettando al minuto, al secondo i tempi di consegna (a questo si riferisce il titolo: è il bigliettino lasciato a chi non era in casa al momento della consegna).

Il rispetto delle scadenze capestro implica un rapido prosciugamento delle energie, il tempo dedicato alla sfera privata (alla moglie, ma soprattutto ai figli) che si assottiglia sempre più fin quasi ad annullarsi, dando vita a una condizione borderline che lo spettatore percepisce fin da subito, l’unico dubbio è quando e in che modo la catastrofe avverrà, perché il fatto che avverrà è poco ma sicuro, ciò che conferisce a questo, come ad altri film della coppia Loach-Laverty, un dato di ineluttabilità fatalistica che presenta qualche tratto di meccanicità. Il problema in cui si dibatte Ricky e che finisce per trasformarsi in una autentica negazione del proprio sé (Sorry, we missed you! Marx avrebbe parlato di «Ausbeutung», sfruttamento e soprattutto di «Entfremdung», alienazione) è peraltro il medesimo che si trova a dover fronteggiare l’esemplare e angelica moglie Abbie: il piano di lavoro concepito dal marito presuppone l’acquisto di un camioncino per le consegne che costringe la moglie a disfarsi dell’automobile e allungare a dismisura gli spostamenti previsti dal suo defaticante lavoro di caregiver a domicilio – nuovamente sottraendoli all’economia temporale della famiglia. Se poi ci si mette di mezzo anche il figlio adolescente ribelle (che smette di andare a scuola, dedicandosi a disegnare graffiti e poco altro), è chiaro che i fronti a cui la coppia si trova a dover tenere testa sono davvero troppi e i disastri si accumulano con la caparbietà di un meccanismo a orologeria, magari un po’ esagerato, un po’ troppo accanito sul finire del film.

C’è qualcosa, però, che non torna del tutto in questa costruzione. Ferma restando l’assoluta e immediata empatia che suscitano sia Ricky che Abbie, individui buoni e soccorrevoli, non convincono, in questo film, alcuni dettagli. In primo luogo: Ricky non è più giovanissimo e ancora non sembra aver capito la pressoché totale impossibilità della società contemporanea di garantire una sia pur minima ascesa sociale, la sua (legittima) ambizione di comprarsi una casa per emanciparsi da contratti d’affitto precari (così ci viene raccontato) appare francamente utopica in una società come quella britannica (ma lo stesso si potrebbe dire per molti altri paesi, compreso l’Italia) che non permette alcun ascensore sociale. In secondo luogo Ricky è schiacciato da un super-io eroico da pater familias, fra le altre cose non privo di discutibili attribuzioni di genere, un dato che, seppur con una certa ironia (uno dei pochissimi momenti di leggerezza), appare con chiarezza in occasione della momentanea riconciliazione durante la cena indiana: Ricky, a differenza del figlio-fighetta, che mangia solamente pollo Korma, opta per il piccantissimo pollo Vindaloo, una ricetta da vero macho, ma poi, a ben guardare, quel piatto non riesce a leggerlo nemmeno lui. In terzo luogo: com’è che madre, padre e figlio possiedono tutti l’I-Phone?


CAST & CREDITS

(Sorry We Missed You); Regia: Ken Loach; sceneggiatura: Paul Laverty; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Jonathan Morris;interpreti: Kris Hitchen (Ricky Turner), Debbie Honeywood (Abbie Turner), Rhys Stone (Seb Turner), Katie Proctor (Liza Jane Turner, Ross Brewster (Maloney); produzione: Sixteen Films, BBC Films, BFI; distribuzione: Lucky Red; origine: Regno Unito-Francia-Belgio 2019; durata: 100’


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