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Soul Kitchen

Pubblicato il 9 gennaio 2010 da Salvatore Salviano Miceli


Soul Kitchen

All’ultima Mostra di Venezia è sbarcato in concorso un Fatih Akin che non ti aspetti, in grado di regalare ampi sorrisi e puro divertimento, per ricevere in cambio applausi sinceri (raramente la stampa si è lasciata andare, davanti i nostri occhi, ad una così calorosa manifestazione di assenso al termine di una proiezione), apprezzamenti generali ed alla fine il Gran Premio della Giuria. Il regista tedesco di origine turca, autore di pellicole amate non poco dalla critica internazionale (non sempre con motivazioni condivisibili), decide, dopo il premio per la migliore sceneggiatura internazionale conseguito a Cannes (2007) dal suo Ai confini del paradiso, di abbandonare per un attimo la seriosità del suo cinema per rispolverare un antico progetto scritto ai tempi de La Sposa Turca, prima che l’Orso d’Oro berlinese lo consegnasse all’attenzione di pubblico e stampa.
Soul Kitchen è un piccolo ristorante nella periferia di Amburgo. Nulla a che vedere con i grandi e lussuosi locali del centro città, ma una piccola osteria in cui Adam fa da proprietario e cuoco e le cui pietanze (perlopiù prodotti surgelati cucinabili senza alcuna difficoltà) sono adorate da una clientela particolarmente affezionata. Soul Kitchen è il racconto delle vite che si incrociano all’interno del locale, di sogni e aspirazioni (a metà tra lo strambo e l’irrealizzabile) cui tocca fare i conti con la realtà. È la storia di un gruppo di amici, di due fratelli, di vecchi compagni di scuola inaciditi dal tempo, di una gloria arrivata e subito volata via.
Punto di forza del film, oltre la recitazione di tutti gli interpreti, è da ricercare nella sua scrittura. La sceneggiatura, che sembra davvero possedere le caratteristiche tipiche del flusso di coscienza (Akin ha dichiarato di averla scritta in appena cinque giorni), tocca i diversi registri della commedia, dal grottesco al sentimentale, sino a lambire, senza mai attraversarlo del tutto (scelta assai azzeccata), il confine del demenziale.
Inutile aspettarsi grandi e complessi movimenti di macchina. Qui, la mdp ha come unico compito quello di farci entrare il più possibile in relazione con i personaggi, di condurci ad esplorare le loro scelte ed i loro differenti caratteri. Da vicino o da lontano, con il nervosismo proprio della camera a mano o con un più classicheggiante e confortante classicismo, la tecnica di ripresa punta sull’intimità delle tante storie raccontate. Diventa poi impossibile affrontare qualsiasi discorso sullo stile senza chiamare in causa la colonna sonora. Si nota da subito una consonanza tra le scelte registiche di Akin, e del suo direttore della fotografia, e i numerosi brani strumentali soul degli anni ’70 che fanno da commento ai principali passaggi narrativi. Di sfondo, ma neanche tanto, c’è la città. Una Amburgo che si capisce quanto amata sia dal regista. Una realtà urbana che volutamente, nelle immagini di Soul Kitchen, esiste nei suoi sobborghi, nei luoghi che presto non esisteranno più.
Provocatorio e coinvolgente, in grado di trasmettere sentimenti quali amicizia, amore e nostalgia senza lasciarsi stringere dalla morsa della retorica, Soul Kitchen è un piccolo gioiello vitale, divertente e spensierato, apparso improvvisamente tra i tanti drammi portati sullo schermo della competizione ufficiale dell’ultima Mostra di Venezia.


CAST & CREDITS

(Soul Kitchen); Regia: Fatih Akin; soggetto e sceneggiatura: Fatih Akin, Adam Bousdoukos; fotografia: Rainer Klausmann; montaggio: Andrew Bird; scenografia: Tamo Kunz; interpreti: Adam Bousdoukos (Zinos), Moritz Bleibtreu (Illias), Birof Unel (Chef), Pheline Roggan (Nadine), Anna Bederke (Lucia); produzione: Corazòn International, Pyramide Production, NDR, Dorje Film; distribuzione: Bim Distribuzione; origine: Germania, 2009; durata: 99’;


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