Steve Jobs

Arriva finalmente anche in Italia la mezza biografia cinematografica di Steve Jobs realizzata contro la volontà della sua famiglia da un Danny Boyle sorprendentemente posato e privo di quegli sbalzi pindarici di manovella che da sempre infestano un cinema, il suo, rimasto irrimediabilmente ancorato all’estetica "videoclippara" dell’ultimo decennio del secolo passato: costretta ad adeguarsi al passo fortemente teatrale della ponderosa sceneggiatura di Aaron Sorkin, la sua regia si mantiene entro limiti di ben ritrovata e composta sobrietà, pur senza perdere ogni minima occasione per schizzargli via dalle mani nei - fortunatamente - brevi e concitati rivoletti degli interludi che separano i tre atti principali del racconto.
Si diceva mezza biografia: proprio questo è forse il problema maggiore di un film di cui non si sentiva effettivo bisogno, almeno impostato in questo modo, o meglio per come regista e sceneggiatore hanno scelto di impostarlo. Della vita di Jobs, morto di cancro a soli 56 anni e al culmine di una carriera scandita da intuizioni di sempre crescente genialità che hanno fornito al mondo device paragonabili, per pubblica e privata utilità, alla ruota, si è scelto infatti di non raccontare la parte più nota, cioè da quando anche gli utilizzatori di computer più refrattari ad adottare macchine Apple hanno capitolato e, un po’ per gioco, un po’ per effettiva necessità, si sono muniti prima di iPod, poi di iPhone e infine di iPad, portandosi dietro centinaia di ore della loro musica preferita e imparando a convivere con l’illusione di un mondo intero permanentemente a portata di mano e navigabile da dovunque con pochi tocchi di polpastrello. Se questo era infatti lo Steve Jobs più conosciuto, ormai CEO della Apple, e guru promotore di una vision che ha - meritevolmente - incantato milioni di utenti, il film di Boyle, accolto piuttosto tepidamente al botteghino USA, preferisce frugare nei casini matrimoniali di un marito egocentrico e padre distratto, troppo concentrato nelle fasi cruciali dei lanci di tre fra i gioielli più rivoluzionari dell’azienda di Cupertino, dal Macintosh del 1984 all’iMac del 1998, e finisce per mettere in scena un mélo familiare che, per quanto asciutto, risulta non propriamente di tutto questo grande interesse.
Non si vuole qui affermare che il film avrebbe fatto meglio a raccontare integralmente la vicenda umana e professionale di un tizio che "ci ha cambiato la vita" e che avremmo forse preferito vederlo impegnato a cambiarcela anche sul grande schermo (un po’ come fare un film su Giulio Cesare senza mostrare il passaggio del Rubicone, o su Isaac Newton omettendo l’episodio della mela in testa), perché chiunque è padrone di scegliere di raccontare quello che vuole. Fatto sta che, magari per la pur volenterosa ma poco convincente prestazione di Michael Fassbender - mai, neppure per un istante si crede che possa essere Steve Jobs, un corpo e un volto ancora troppo freschi nella memoria collettiva per non rilevare l’assenza di qualunque eventuale somiglianza tra i due - e nonostante i notevoli apporti di un cast eccellente e azzeccato (nel quale svetta una magnifica e imbruttita Kate Winslet, premiata ai Golden Globe e serissima candidata all’Oscar come attrice non protagonista), questo early Jobs proprio non riesce ad appassionare.
Al termine delle abbondanti due ore di proiezione il film si conclude un po’ frettolosamente e si ha la brusca e sgradita sensazione di un’interruzione forzata e prematura.
(Steve Jobs); Regia: Danny Boyle; sceneggiatura: Aaron Sorkin; fotografia: Alwin H. Küchler; montaggio: Elliot Graham; musica: Daniel Pemberton; interpreti: Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels; produzione: Legendary Pictures, Cloud Eight Films, Decibel Films, Management 360, The Mark Gordon Company, Scott Rudin Productions; distribuzione: Universal Pictures; origine: USA 2015; durata: 122’
