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Su una certa tendenza dell’Oscar contemporaneo

Pubblicato il 26 febbraio 2007 da Alessandro Izzi


Su una certa tendenza dell'Oscar contemporaneo

A pensarci bene era tutto già scritto da prima ancora che fossero annunciate le nominations!
L’Oscar a Scorsese, i tre premi a The departed (Miglior film, migliore sceneggiatura non originale e miglior montaggio: almeno su quest’ultima niente da eccepire) avevano avuto sin dall’inizio i loro segnali di fumo, erano i paragrafi della cronaca di una morte annunciata o di un’agonia prolungata.

Intendiamoci: The departed è senz’altro un film bellissimo e pieno, ha i suoi immensi bagliori da melodramma contratto e a stento trattenuto, brucia di passione in inquadrature spesso formidabili. Ma l’ultima fatica di Scorsese non è Taxi driver, né Toro Scatenato, né Quei bravi ragazzi, né, infine, Casinò. È, semmai, la decalcomania di quei film formidabili, la riduzione a maniera (straordinaria, da urlo, mitizzata, in certa misura anche necessaria) di un’urgenza espressiva che, da anni, non trova più la strada maestra del capolavoro inossidabile e indiscutibile. I premi alla regia e al film (che giunge dopo anni, per un remake) per quanto non necessariamente ingiustificati, sembrano essere più un risarcimento che altro. Come un risarcimento era, in fondo, l’anno scorso, il premio alla carriera a Robert Altman mentre, nella sezione dei premi veri, veniva consacrato un film come Crash che rappresentava, dal canto suo, il trionfo della maniera altmaniana, la riduzione a scuola di un maestro unico ed irripetibile.
Per questo la felicità che pure proviamo nel vedere premiato un Autore che ha fatto la Storia del Cinema contemporaneo, si ammanta di una necessaria ombra di mestizia e di un presagio incombente. L’Oscar negli ultimi anni è stato, infatti, troppo solerte nel decretare, coi premi, morti d’Autore, nel consegnare, coi fatti, al mito intangibile della Storia figure illustri poi condannate al silenzio dell’accademia. Certo Scorsese è più giovane di tanti Altman e passa alla cassa dell’Academy direttamente dalla porta di un premio principale e non dall’uscita di servizio di un premio alla carriera. Il suo sguardo è ancora indomito ed incredibilmente giovane. La battuta sul riconteggio delle schede con cui ha ritirato l’ambita statuetta fa sospettare un futuro di film ancora lungo e significante dopo i cascatoni di Gangs of New York (pur personale e denso) e The aviator (più meccanico e freddo) di cui The departed rappresentava (nella maniera) una sostanziale ripresa. Eppure…

Il grande sconfitto della serata (ci sono sconfitti veri quest’anno, dopo una serie di edizioni equanimi che sembravano voler accontentare un po’ tutti) è stato il Clint Eastwood di un dittico fondamentale della storia del cinema bellico. Flags/Letters (già nei titoli: il pubblico e il privato della Guerra) non è mai pacificato né di maniera. È un brulichio, anche contraddittorio, di pensieri in fermento e di emozioni mai decantate. Sulla carta meritava l’Oscar forse più di quanto non lo meritassero Scorsese e il suo film. Ma non hanno portato a casa altro che un premio per il montaggio sonoro: neanche un risarcimento all’ambizione. E pesa il sospetto che l’ago della bilancia sia stato influenzato più dagli esiti del botteghino (alti per Scorsese, bassi per tutti e due i film eastwoddiani) che non da precisi meriti artistici.

Del resto, ormai è cosa nota, l’Oscar premia, prima di tutto, la vocazione commerciale del cinema e nel far questo si contraddice nell’intimo: è frutto di un capitalismo sfrenato, ma poi brucia i suoi sensi di colpa in crociate progressiste che non arrivano quasi mai oltre le nominations.
Da qualche anno a questa parte, ad essere candidati sono quasi esclusivamente film d’impegno e di coraggio. Le cinquine brillano d’audacia nell’indicare ad una società retriva e bigotta come quella americana, le direzioni di un futuro migliore nel rispetto del mondo circostante. Parlano di orrore per la guerra, investigano, senza preconcetti presidenziali, le cause del terrorismo, affrontano tematiche scottanti come il razzismo e la violenza metropolitana, si impegnano sul fronte dell’ecologia e della ricerca di nuove risorse energetiche e si sporcano le mani con le contraddizioni della storia più o meno recente.
Le nominations ci descrivono un’America ancora legata ad un culto classicista (niente formalismi, tranne eccezioni contenute, come, quest’anno, Inarritu), ma, nei contenuti, consapevole e giustamente preoccupata della sua posizione egemone nello scacchiere internazionale.
Poi la sera dei premi, quando si srotola il tappeto rosso e il glamour prende il sopravvento, una cautela che sa di gelo investe la consegna dei premi e le statuette prendono il volo sempre verso i lidi più circoscritti dei film meno progressisti.

Quest’anno la presunta internazionalità delle candidature coi tanti messicani (Inarritu, appunto, ma anche Cuaron e del Toro) e molto cinema british (Frears, Greengrass e, per produzione, ancora Cuaron) si è sciolta nella consueta consacrazione tutta stelle e strisce anche se, in The departed, ad essere cantata è, polemicamente, la corruzione di palazzo. Children of men, film coraggioso, non porta a casa nulla; Babel si deve accontentare della patente polifonica della miglior musica (il cinema di Inarritu è sempre splendidamente musicale), mentre il letterario Labirinto del fauno cede l’Oscar di film straniero alla Germania accontentandosi dei premi più superficiali e scenografici.

Unico trionfo politico è il pensiero ecologista che sta alla base dei premi a Una scomoda verità (miglior documentario e miglior canzone) e a Happy feet (superiore per densità etica e concettuale agli altri candidati per il film d’animazione.

In questo panorama i premi agli attori sembrano pensati per riequilibrare un poco la distribuzione dei premi. L’intrattenimento per i non protagonisti (Alan Arkin per Little Miss Sunshine e Jennifer Hudson per Dreamgirls: il film più candidato e, in proporzione meno premiato), il rapporto con la storia per i protagonisti (Forest Withaker per L’ultimo re di Scozia e Helen Mirren per The Queen: entrambi formidabili, comunque).

A Morricone, che porta a casa dopo tante nomination, il premio alla carriera non ci resta che augurare, in barba ad un premio che sa di museo, lunga vita ancora e, soprattutto per noi, tante nuove colonne sonore.


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