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The dangerous lives of altar boys

Pubblicato il 22 ottobre 2002 da Alessandro Izzi
VOTO:


The dangerous lives of altar boys

Film sul difficile passaggio dall’infanzia al mondo adulto e suelle crisi esistenziali che ne derivano come dolorosa conseguenza, quest’opera d’esordio di Peter Care ha tutte le caratteristiche di un unicum bizzarro ed affascinante destinato a lasciare dietro di sé una traccia più che duratura. E non lo è tanto per la presunta sperimentalità che gli dovrebbe derivare dall’accostamento inusuale tra le immagini che raccontano le storie della vita vera del gruppo di protagonisti e i siparietti a cartoni animati che narrano, in parallelo, le vicende degli eroi dei fumetti che essi stessi hanno ideato e disegnato, quanto piuttosto per l’inaspetatta sincerità che permea ogni fotogramma ed ogni situazione, per la capacità che, da un certo punto in poi, lascia quasi sgomenti, di mischiare il grottesco con la tragedia, l’ironia con il dolore. Di film sull’infanzia sono pieni gli archivi delle cineteche, risultava quindi molto difficile riuscire a dire qualcosa di nuovo o di originale. La soluzione adottata tanto da Chris Fuhrman (autore del libro da cui è tratto il film) quanto dal regista di fronte allo spettro angoscioso della ripetitività oziosa e del deja vu risiede non tanto nell’assurda ricerca di situazioni mai raccontate o di punti di vista inusuali, quanto piuttosto, nel tentativo, riuscitissimo, di gettarsi nello stereotipo rivitalizzandolo con una dose massiccia di reale empatia. Si capisce subito, infatti, che gli autori partecipano alla storia che vanno narrando con profonda simpatia e pietà, che si immedesimano in tutti i risvolti del racconto, provando simpatia per le situazioni assurde in cui i “loro” ragazzi vanno a cacciarsi, rimpianto per le loro occasioni perdute, commozione per i loro drammi e le loro tragedie. Pure essi riescono, allo stesso tempo, a crearsi sempre uno spazio ulteriore, uno sguardo più profondo di quello dei ragazzi in scena, una visione più matura che gli deriva dal non essere più, tristemente, esponenti di quella fascia d’età magica ed ambigua che vanno cantando. Il loro è uno sguardo contemporaneamente dall’interno e dall’alto, una visione che non si limita, come in molti racconti analoghi, a rivivere le vicende narrate con quel sorriso bonario di chi guarda al mondo da una posizione lontanamente privilegiata quasi si trovasse di fronte a delle curiosità antropologiche. Non guarda i suoi protagonisti con quell’esclamazione sospirosa ed adulta che pare dire sempre: “Bambini! Son fatti così” (uno sguardo alla Harry Potter di Columbus insomma!). Ma si avvicina ai personaggi con quello che Truffaut aveva definito “lo sguardo del nonno” che perdona tutto anche perché ha il tempo di ricordare ancora se stesso bambino, ma che ha anche quella visione d’insieme che gli deriva dall’età, per capire, più dei suoi stessi ragazzi, la tragedia sottesa alle loro azioni e ai loro bisogni. Ci sono alcune immagini, nel film che lasciano stupefatti per la loro capacità di raccontare ellitticamente le situazioni più risapute (tipiche nei drammoni televisivi di primo pomeriggio). La scena più affascinante in questo senso è quella, tutto sommato risaputa, in cui Tim (l’amico del cuore del protagonista a cui si lega maggiormente lo sguardo della macchina da presa) cerca di prestare soccorso ad un cane investito da un qualche pirata della strada ed abbandonato sull’asfalto a morire. Non ci vuole molto a capire che il suo caparbio desiderio di aiutarlo deriva dal vedere riflessa, nella condizione del cane, la propria situazione di figlio di una coppia in crisi, da persona che si sente ignorata ed abbandonata dai suoi stessi genitori. Tutte le marachelle che va portando avanti assumono, sotto questa aspetto, una luce nuova che viene resa più abbacinante dall’inserto brusco, e inizialmente spiacevole, del disegno animato in cui vediamo (in una scena delle più violente e simboliche di tutto il film) l’eroe dei fumetti, controparte animata del ragazzo, strapparsi di dosso la carne per lasciare esposto solo il suo nudo ed essenziale scheletro. È un momento di consapevolezza e di pietà profonda, un momento di comprensione e di compassione che va al di là di quanto può essere detto a parole. Il mondo della fantasia è certo un rifugio per questi giovani ragazzi, ma, pare dirci il regista, la Fantasia non è lontana abbastanza da questo mondo brutale. Dominato da un cast perfetto con Kieran Culkin che ruba spesso la scena al protagonista Emile Hirsch, il film ha nasconde le sue sorprese maggiori nei ruoli femminili: Jodie Foster (sempre più brava ed intelligente) dona al suo ritratto di monaca inacidita quel miscuglio di vulnerabilità e crudeltà che lo porta al di là della facile macchietta e Jena Malone si appropria del suo personaggio contraddittorio con una ricchezza introspettiva notevole. Certo restano, alla fine del film, aperte molte domande, ma non è così anche con la vita vera?

(The Dangerous Lives of Altar Boys); regia: Peter Care; sceneggiatura: Jeff Stockwell, Michael Petroni; fotografia: Lance Acord; montaggio: Chris Peppe; musica: Marco Beltrami, Joshua Homme; interpreti: Kieran Culkin, Jena Malone, Jodie Foster, Emile Hirsch, Vincent D’Onofrio; produzione: Jodie Foster, Meg LeFauve e Jay Shapiro; origine: Usa 2002; distribuzione: Mediafilm

[ottobre 2002]

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