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The experiment

Pubblicato il 22 agosto 2002 da Alessandro Izzi
VOTO:


The experiment

L’inferno sono gli altri recitava Sartre in quello che rimane uno dei più grandi capolavori teatrali del secolo scorso (A porte chiuse). E questa massima, divenuta ormai proverbiale, non avrebbe sfigurato come epigrafe a The experiment, anzi, vi si sarebbe adattata splendidamente divenendo una sorta di sottotitolo esplicativo che, certo, avrebbe aiutato il pubblico a capire le vere intenzioni degli autori. Purtroppo, i distributori italiani hanno preferito optare , piuttosto, per una politica distributiva dalla sostanziale ambiguità: da una parte con un insistente battage pubblicitario che faceva leva su un trailer che mostrava solo quelle scene che rimandavano ad un immaginario tipicamente fantascientifico (luci al neon in rapida successione nell’astratto spazio di un corridoio stile astronave); e, dall’altra, attraverso lo stesso titolo dell’edizione italiana, che trasforma il teutonico Das experiment in un più vendibile proclama da blockbuster statunitense che depista le aspettative del pubblico verso il solito malsano filmaccio action/horror/fantasy. Niente di più falso, perché The experiment è un notevole film drammatico, caratterizzato da una regia asciutta che rifugge ogni tipo di effettismo fine a se stesso e che riporta alla ribalta un ideale spettacolo della crudeltà in una riflessione accorata sulla violenza insita nella natura umana. Un gruppo di persone viene ingaggiato, dietro promessa di una più che lauta ricompensa, per prestarsi come cavie umane per un esperimento le cui finalità non sono ben chiare. Divisi in due fazioni opposte (da una parte un gruppo di dodici detenuti, dall’altra otto guardie carcerarie), i protagonisti/vittime del gioco vengono chiusi in una sorta di prigione ipertecnologica, fredda ed asettica. Mentre le guardie dividono dei turni piuttosto flessibili, con la possibilità di lasciare l’edificio appena ultimato il loro lavoro, i detenuti (che hanno rinunciato per contratto ai loro diritti civili) si trovano, in tutto e per tutto, nella situazione di normalissimi carcerati: sottoposti agli umilianti riti d’ingresso (docce, visite mediche ecc.), costretti agli orari tipici della vita carceraria (sveglia al mattino, ora d’aria, spegnimento delle luci e silenzio) ed obbligati a dividere le celle con dei perfetti sconosciuti cui possono rivolgersi chiamandoli solo con il numero che hanno cucito sulla povera casacca che costituisce l’unico indumento consentito. Ma, cosa di gran lunga peggiore, tutti i partecipanti all’esperimento sono obbligati ad indossare i loro ruoli, a diventare realmente detenuti o carcerieri, pena l’esclusione dal gioco e dalla divisione finale dei soldi. Ben presto ci si rende conto che la prigione non è un luogo fisico, non è la somma di quattro mura chiuse sull’esistenza di pochi individui che la società ha bollato come momentaneamente o permanentemente “indesiderabili”; essa è, piuttosto, la complessa rete interpersonale dei rapporti psicologici che si stabiliscono tra le persone che sono costrette ad abitarla. L’orrore della detenzione risiede kafkianamente non solo nella privazione della propria privacy, ma anche nell’essere obbligati a riconoscersi in un ruolo, a doverlo indossare e a riconoscerlo costantemente nel proprio sguardo e in quello degli altri. Una situazione che non riguarda solo il detenuto, ma che coinvolge lo stesso carceriere costretto a scendere a patti e a far propria la violenza che il suo ruolo gli impone e che, con orrore, scopre essere parte integrante, ma sostanzialmente rimossa, della sua stessa natura. Il gusto di infliggere tormenti alle persone sottoposte diventa, allora, ben presto un’abitudine per certi aspetti inebriante e il filo che separa legalità ed illegalità si fa di colpo sempre più indistinguibile. Viene, in mente, durante la visione del film, l’atroce ridda di ironia e dolore che caratterizza il XXI canto dell’Inferno dantesco dove, con lucida spietatezza, viene messo in scena, nei toni di una commedia, proprio il rapporto tra vittime e carnefici. Finché la pellicola conserva i toni di un documentario partecipe delle aberrazioni psicologiche cui si auto sottopongono i partecipanti all’esperimento, tutto appare splendidamente concertato e sapientemente fotografato. Peccato che nel finale, col prevedibile precipitare degli eventi, il montaggio delle scene cominci ad apparire artificioso e si affacci, nello spettatore, l’impressione che si sia più alla ricerca del morto a tutti i costi che non altro.

(Das Experiment); regia: Oliver Hirschbiegel; sceneggiatura: Don Bohlinger Christoph Darnstädt Mario Giordano; fotografia: Rainer Klausmann; montaggio: Hans Funck; musica: Alexander Bubenheim; interpreti: Monica Bellucci , Gérard Depardieu , Christian Clavier , Jamel Debbouze , Claude Rich , Gérard Darmon , Alain Chabat , Isabelle Nanty; produzione: Marc Conrad, Norbert Preuss, Friedrich Wildfeuer; origine: Germania, 2001

[agosto 2002]

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