The history boys

In molti diranno che The history boys è solo un altro di quei film nati sulla scia di una pellicola come Dead poets society. Qualcuno azzarderà anche che, in fondo, questa nuova pellicola, che esce un po’ in ritardo rispetto all’edizione dvd inglese, è un’opera realizzata fuori tempo massimo, magari giocando sul fatto che il film di Weir è ormai quasi del tutto sconosciuto per gli spettatori più giovani. I più malevoli scriveranno che un ‘prodotto’ del genere, non sembra aver altro scopo che porsi in una dimensione emulativa, ripropositiva rispetto ad un testo di partenza che resta comunque indiscutibilmente originale ed inarrivabile. In poche parole si dirà che quello che si ha di fronte non è altro che un remake vestito di nuovo.
A guardare The history boys secondo la lente distorcente di L’attimo fuggente non ci si accorge, però, di troppe cose. Il parallelo è, infatti, tanto apparentemente scontato quanto insidiosamente fuorviante. Non solo perché il nuovo film di Nicholas Hytner (lo stesso di The madness of King Gorge) prima di essere il possibile frutto tardivo di un preciso genere cinematografico (quello adolescenzial scolastico) è la trasposizione cinematografica di una piece teatrale di incredibile successo di pubblico e di critica. Ma soprattutto perché tra le due opere c’è una profondissima differenza contenutistica, una totale distanza di pensiero e di intenti.
Protagonista di The history boys non è, come nella pellicola di Weir, una precisa filosofia di vita che passa attraverso l’exemplum vivente di un professore molto sui generis. Al contrario: protagonista mai troppo occulto del film di Hytner è, in tutto e per tutto, il puro e semplice ‘atto di insegnare’. Non, insomma, il messaggio (Carpe diem), ma il ‘passaggio’ del sapere dal docente al discente. Il modo in cui un certo modo di studiare (e, quindi, di vivere) passa da una parte all’altra del percorso formativo indipendentemente dall’età di chi apprende e di chi, invece, impartisce.
Per cui più che dalla pluralità dei personaggi di questo film sapientemente corale, lo spettatore dovrebbe interessarsi, prima di tutto alla varietà di metodologie di insegnamento che vengono messe in campo.
E queste sono essenzialmente tre. La prima, che fa riferimento alla classe di storia di Mrs Lintott è legata essenzialmente ad una dimensione ‘fattuale’ (se ci si passa il neologismo) della materia insegnata. “Facts, facts, facts!” esclama la professoressa di fronte ai suoi allievi rimarcando, nella docenza, prima di tutto una trasmissione di nozioni oggettive che passano, comunque, attraverso un rapporto umano fondato sul reciproco rispetto di norme anch’esse assolutamente oggettive. La seconda è quella legata ad una figura arrampicatrice come quella di Irwin che finge (quindi mente) di essere ex studente di Oxford per avere il posto di docente supplente ed imposta le sue lezioni su una logica direttamente utilitaristica: facendo le cose in un certo modo il tornaconto è assicurato. In questa prospettiva il suo insegnamento può essere importante (guardare sempre le cose da un punto di vista diverso: un insegnamento molto alla Dead potes society), ma insidioso (cercare il punto di vista diverso per l’effetto che la cosa fa sul pubblico e non per la ricerca della verità). La terza è quella, invece, legata ad Hector, un professore molto particolare che vede nell’insegnamento prima di tutto una comunione di intenti, uno scambio anche erotico di conoscenza (tutta necessaria, tutta inutile) e di affettività.
Nessuna delle tre strade presentate dal film sembra essere (e qui sta un primo elemento che rischia di destabilizzare le aspettative del pubblico in cerca di un eroe nel quale immedesimarsi) migliore di altre. Di ciascuna ci vengono detti pregi e difetti, ciascuna viene posta sul piano di una dialettizzazione che non ammette risoluzioni in un senso o nell’altro.
Da questa tripartizione fondante del materiale narrativo emerge chiara una prima conseguenza: ad essere importanti ai fini dell’intreccio non sono tanto i singoli personaggi, ma i discorsi che essi fanno. Sono, insomma, le parole (veicoli, insieme agli sguardi e ai gesti, del processo di insegnamento) i veri personaggi del film. Ma di qui anche il rischio di una stasi narrativa che, però, è solo apparente perché a muoversi e ad agire poco sono le persone messe in scena non certo le idee che esse si rimpallano continuamente (e il gioco è reso vivace dal team di attori splendidamente affiatato).
Di, qui, infine, anche la realistica rinuncia all’happy-end. E non perché alla fine muore uno dei personaggi principali, ma perché di tutti i discenti solo uno sembra davvero capace di farsi reale ricettore appassionato e consapevole di quanto ha appreso.
Ad un certo punto del film Irwin aveva chiesto ad Hector se qualcuno dei suoi studenti lo aveva deluso. “They usually do” era stata la risposta accorata, ma non disperata dell’anziano insegnante. Perché chi insegna sa bene che da quello che semina con la massima sollecitudine pochi fiori sortiranno. E Posner che alla fine del film (in un significativo tradimento rispetto al finale della piece teatrale) è diventato anche lui insegnante sa di non poter essere felice, ma non per questo è triste. L’esatto contrario, a pensarci, di Dead poets society.
(The history boys); Regia: Nicholas Hynter; sceneggiatura: Alan Bennett dalla sua opera teatrale; fotografia: Andrew Dunn; montaggio: John Wilson; musica: George Fenton; interpreti: Richard Griffiths (Hector), Samuel Barnett (Posner), Frances de la Tour (Mrs. Lintott), James Corden (Timms), Stephen Campbell Moore (Irwin), Dominic Cooper (Dakin), Russell Tovey (Rudge), Penelope Wilton (Mrs. Bibby), Georgia Taylor (Fiona), Adrian Scarborough (Wilkes); produzione: Free Range Films, British Broadcasting Corporation (BBC), DNA Films, Royal National Theatre, UK Film Council; distribuzione: 20th Century Fox; orgine: Gran Bretagna, 2006; durata: 109’
