The Irishman
Cominciamo dall’inizio. Quella che a tutti gli effetti sembra una soggettiva, realizzata con una steadycam un po’ troppo incerta per gli standard di Martin Scorsese, avanza nei corridoi di una casa di riposo per anziani, e va a fermarsi accanto a un Robert De Niro molto invecchiato da un trucco di buona fattura, il quale ha però già iniziato a raccontarci in voce fuori campo la lunga storia di The Irishman. Quando subito dopo la macchina da presa lo inquadra di tre quarti, lui continua il racconto rivolgendosi non all’obiettivo della cinepresa, ma a un interlocutore che noi non vediamo. Di chi era dunque la soggettiva in apertura? Ci verrà rivelato più avanti?
Comincia così la nuova saga mafiosa affidata da Netflix al regista di Goodfellas e di Casino, che per l’occasione ha riunito i suoi attori del cuore, De Niro e Joe Pesci, affiancandogli Harvey Keitel, con cui aveva lavorato in Mean Streets e Taxi Driver, e un Al Pacino tornato finalmente sullo schermo con un grande ruolo cucito addosso al suo incontenibile istrionismo. Il progetto prende le mosse dal libro L’irlandese: ho ucciso Jimmy Hoffa, la lunga confessione di Frank Sheeran, gelido e zelante sicario della criminalità organizzata di Philadelphia gestita dal boss di origine italiana Russ Bufalino, raccolta dall’ex investigatore Charles Brandt, che risolse il mistero della scomparsa di Jimmy Hoffa, il celebre sindacalista che ebbe l’audacia di sfidare i Kennedy, pagando con la galera la propria non proprio immacolata condotta.
Una vera ‘reunion’ cinematografica, dunque, anzi una ‘rimpatriata’, detto all’italiana, visto che dopo Casino, in trent’anni e in una decina di titoli di alterna qualità e riuscita, Scorsese aveva nuovamente toccato il tema della malavita mafiosa soltanto nel 2007 con The Departed. Ma mentre il fortunato remake americano del cinese Infernal Affairs, premiato con quattro Oscar tra cui miglior film e miglior regia, brillava per dinamismo e vitalità, The Irishman è dichiaratamente un’opera ‘tarda’, che come un quartetto per archi di Beethoven ormai chiuso nella sua sordità o una tela di Tiziano dalle pennellate sfumate per colpa della quasi definitiva cecità dell’artista, trasmette un senso di cinica e amara consapevolezza senile sulla vanità della vita, sull’irriducibilità di un destino che da un certo momento in poi ci impone un percorso dal quale ci è impossibile deragliare fino alla fine dei nostri giorni, quando ormai inutile sarà il rimpianto di scelte ed errori commessi nel nome di chissà quale ambizione o speranza giovanile.
Il passo più posato della regia, immune dai manierismi e dall’ostentata velocità di The Wolf of Wall Street, impone fin da subito allo spettatore una visione più meditata, e gli comunica la sensazione di entrare nella fase della vita di un uomo in cui, vuoi per il declino fisico, vuoi per il disincanto morale e sentimentale provocato dai lutti, dalle perdite, dagli scacchi che tutti, in diversa misura, collezioniamo nel corso degli anni, il tempo si dilata e si svuota, viene meno l’ingombro fisico della responsabilità di dover distinguere il bene dal male che si è compiuto, e tutto acquista un’aura di desolata indefinizione, dove neppure avrebbe senso ‘pentirsi’. Il problema di The Irishman, tuttavia, è che a questo stadio di algido e dolente distacco si giunge soltanto nell’ultima delle tre ore e mezza della sua durata, quando cioè si avverte nel cinema di un cineasta così amato cui ultimamente si è dovuto perdonare qualche cedimento in nome dell’affetto e della stima che ha saputo abbondantemente guadagnarsi nei nostri cuori, un vento nuovo, un tratto inedito, una visione del mondo da acquisire e custodire nelle teche della nostra cultura personale accanto a Tolstoj, Thomas Mann, Verdi, Wagner, Tagore… È in questa ultima parte di un film che contiene nei suoi conclusivi sessanta minuti la vera ragione per cui sarà ricordato dai posteri, che Scorsese trova modalità di rappresentazione da lui mai praticate prima, frutto indubbio dell’importante esperienza del precedente Silence, e più in generale della frequentazione del cinema orientale studiato e approfondito nell’occasione di The Departed , e naturalmente dell’età avanzata: raramente si è vista al cinema una vecchiaia meno edulcorata e buonista di questa che recide le gambe ai protagonisti del film, scampati a una morte per arma da fuoco come quasi tutti i loro ‘colleghi’, e li costringe in sedia a rotelle a una forzata meditazione, non priva di una certa dignità e umana pietà, sulla propria miseria morale. Esemplare in tal senso la sequenza in cui Sheeran/De Niro va ad acquistare alle Pompe Funebri la bara in cui vorrà essere seppellito… Ma per le iniziali due ore e mezza The Irishman ripercorre non certo stancamente, ma con meno incisività e brillantezza di orchestrazione di quanto dimostrato altrove da Martin Scorsese, cliché a lui attribuiti come pattern acquisiti che avrebbe forse dovuto affrontare con una maggiore intenzione di rinnovamento, se non di aggiornamento stilistico. Ci si affida alle magistrali interpretazioni dei protagonisti maschili, sui quali svetta, per sobrietà e sottrazione, un Joe Pesci mai così misurato e sfuggente, icastica maschera greca del Fato che per te ha già deciso tutto; accanto a un Robert De Niro materico come una scogliera che fronteggi le piogge e i mari in tempesta di un’Irlanda decentrata e sbattuta dalle intemperie, e a un Al Pacino lasciato sbizzarrirsi a briglia sciolta nel disegnare uno dei caratteri più riusciti (e meglio scritti) di tutta la sua gloriosa carriera. Ci si affida a loro, si diceva, perché il resto suona come già visto, ma servito stavolta nei termini di una narrazione scandita con passo miniseriale e televisivo, come se lo stesso Scorsese non fosse poi così convinto di confezionare quel che da lui si aspettavano tutti, ovvero il suo ‘film testamento’. Perfino un film con troppi e grossi buchi come The Aviator poteva vantare una regia assolutamente perfetta nel ricostruire gli Stati Uniti delle annate storiche del XX secolo più battute dal cinema: in The Irishman c’è un odore di ‘compito a casa’ che, per quanto ben fatto, ne riduce l’efficacia narrativa, come se la mano del suo autore fosse affetta da una stanchezza francamente allarmante. Qua e là, sciatterie vistose e addirittura imperdonabili, come nella sequenza bellica in cui De Niro fa fuori un paio di nemici dopo averli costretti a scavarsi la fossa da soli: mai come in quel pur breve minuto male illuminato, male inquadrato e mal diretto, si avverte l’assenza dietro la macchina da presa del gigante che Scorsese è stato e, si spera, è ancora e continuerà ad essere. Si aggiunga alla lista dei ’No’ una colonna sonora ingombrante, sbagliata, casuale, furbetta e banale composta delle solite canzonette che fanno tanto ‘epoca’ ed evidentemente indirizzate a un pubblico di bocca buona che le riconosca e dunque possa ‘sentirsi a casa’, e l’indice di gradimento rischierebbe di orientarsi pericolosamente verso un pur blando rifiuto, in netto contrasto con il consenso unanime di pubblico e critica che il film sta registrando negli USA, dove è stato presentato al Festival di New York lo scorso settembre. Fortunatamente c’è questa sua meravigliosa ultima ora che lo riscatta e lo redime, senz’altro tra le cose più alte mai firmate da Scorsese.
E finiamo con la conclusione, rarefatta, escatologica, sublime: Sheeran/De Niro, ormai prossimo alla morte, nella sua stanza dell’ospizio finisce il suo racconto al misterioso interlocutore: è forse Charles Brandt, l’autore del libro dove ha riportato parola per parola tutta la lunga confessione del cosiddetto ‘imbianchino’, ma non, come comprenderà chi vedrà il film, nel senso di imbiancare le pareti domestiche? Scorsese non ce lo mostra né evidentemente vuole farcelo sapere. Poco dopo, insieme a un prete, l’irlandese prega e lo saluta, scambiandosi gli auguri per l’imminente festività natalizia. Gli chiede la cortesia di non chiudere la porta della sua stanza, ma di lasciarla socchiusa. La stessa macchina da presa dell’inizio segue e accompagna all’uscita il sacerdote per i corridoi della casa di riposo, poi torna indietro, e si ferma davanti alla porta socchiusa della stanza dove l’irlandese si è addormentato, o forse è morto, chissà… Di chi sono questi occhi che per tutto il film lo hanno osservato raccontare la propria storia, ed ora si arrestano con pudore sulla soglia della sua stanza a spiarlo da quella porta che lui ha deciso di lasciare aperta? Forse i nostri occhi? Forse gli occhi della Morte, che dopo averlo corteggiato nei suoi ultimi istanti si appresta ora a portarselo via? O forse gli occhi del Cinema, che altro non è, come diceva Cocteau, se non la Morte al lavoro?
(The Irishman); Regia: Martin Scorsese; sceneggiatura: Steven Zaillian; fotografia: Rodrigo Prieto; montaggio: Thelma Shoonmaker; musica: Robbie Robertson; interpreti: Robert De Niro, Joe Pesci, Al Pacino, Harvey Keitel; produzione: Fábrica de Cine, STX Entertainment, Sikelia Productions, TriBeCa Productions; distribuzione: Netflix; origine: USA, 2019; durata: 209’