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THE RING

Pubblicato il 19 febbraio 2003 da Alessandro Borri


THE RING

La tendenza autarchica statunitense di produrre in proprio remake di successi stranieri invece di far la fatica di distribuirli non smette mai di sorprenderci: commedie francesi o thriller norvegesi, per Hollywood pari sono. Il mondo non può che uniformarsi alla imperiale omogeneizzazione a stelle e strisce, e i nostri moralismi non sono che pruriti di moscerino sulla pelle del gigante. D’altra parte la logica del profitto è l’unica che qui impera, e ostinarsi a ricercare ragioni trascendenti in tali prodotti è vana. Siccome ultimamente poi è di moda l’oriente, i producer più attenti vanno a scovare dalle parti di Corea e Giappone il materiale da saccheggiare per sceneggiatori in crisi d’idee. Anche se il rivelare le fonti non sembra proprio al primo posto tra i loro pensieri (Tarantino ha fatto scuola anche in questo), visto che la scritta “ispirato da” è piazzata in mezzo ai titoli, ben dopo il “scritto da”. Ringu (1998), capolavoro di Nakata Hideo da un romanzo di Suzuki Koji, forse il più bell’horror puro degli ultimi anni, sembra un canovaccio perfetto in quest’ottica. Trasportato in America, lo spunto di partenza può riallacciarsi facilmente al teenage horror post-Scream (infatti Ehren Kruger, che ha adattato lo script originale, viene dritto da Scream 3), mentre il bambino con visioni si può collegare a Shyamalan (e il ferrariano Bazelli non si fa pregare per immergere la piovosa Seattle in atmosfere visuali stile Sesto senso). Verbinski di suo ci mette una certa eleganza di confezione, Zimmer piazza inquietanti bordoni d’archi, e qualche idea è anche carina: i disturbi video che raggiungono la sigla della Dreamworks, la mosca intrappolata nello schermo o il ruolo dell’acero giapponese, che fa brillare le sue foglie rosse sulla collina e richiama alla mente i vari alberi del recente horror giapponese, da Charisma di Kurosawa Kiyoshi a A Forest with No Name di Aoyama Shinji. Detto questo, il “cahiers de doleances” sarebbe lungo. Il discorso è il solito: se non si conosce l’originale ci si può divertire, altrimenti il tutto scorre via terribilmente scontato, e la suspense implacabile che Nakata imprimeva alla progressione verso il nucleo del mistero si scioglie come neve al sole. Il fare della giornalista protagonista una brutale arrivista che si redime attraverso la sofferenza è un’inutile sovrastruttura psicologica americana. Com’era prevedibile le sottolineature orrorifiche sono più marcate, supportate dai trucchi di Rick Baker. Si esagera pure nella reinvenzione del vhs maledetto al centro dell’intreccio, trasformato in una rassegna surrealista con sedie volanti e alberi in fiamme, gustosa fin che si vuole, ma senza il potere supremamente ipnotico del prototipo. Per quel che riguarda il plot, al posto di Cassandre e vulcani arriva una storia di cavalli, maternità difficili e suicidi pirotecnici. La leggendaria Sadako diventa Samara ma conserva le sue malsane abitudini, il sudario di capelli e le unghie devastate. La magia, però, se l’è scordata in Giappone.

[febbraio 2003]

Cast & credits:

Regia: Gore Verbinski; sceneggiatura: Ehren Kruger; fotografia: Bojan Bazelli; montaggio: Craig Wood; musica: Hans Zimmer; scenografia: Tom Duffield; costumi: Julie Weiss; effetti speciali trucco: Rick Baker; supervisione effetti visivi: Charles Gibson; interpreti: Naomi Watts, Martin Henderson, Brian Cox, David Dorfman, Daveigh Chase, Lindsay Frost; produzione: Dreamworks Pictures; origine: USA 2002; distribuzione: UIP; durata: 110’.

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