This is Hollywood

4 marzo 1933: Franklin Roosvelt assume la carica della presidenza degli Stati Uniti d’America, una nazione che attraversa una grossa crisi economica; se da un lato i disoccupati superano i 10 milioni, e dall’altro lato il reddito nazionale si è dimezzato, il neonato Studio System hollywoodiano non sembra risentire del peso di questa recessione; Hollywood rischia poco e la sua struttura non solo resta intatta, ma si rafforza continuamente. Le Big Five (Paramount, MGM, Fox, Warner e RKO) e le Little Three (Universal, Columbia e United Artists) creano un vero e proprio sistema capitalistico in cui, molte volte, l’arte è sempre e comunque sottomessa all’economia. Col passare degli anni, per giungere ai giorni nostri, tra varie peripezie, crolli e rinascite, il sistema hollywoodiano è sempre più potente, capace di passare da superproduzioni miliardarie a economici b-movie che, in ogni caso, trovano facile mercato in gran parte del mondo.
Una struttura a dir poco gerarchica quella di Hollywood, che vede nel produttore la figura massima, il “dio cinematografico” che ha il potere di decidere sulla vita e sulla morte di qualsiasi film; un po’ più giù si trova il regista, al quale molte volte non interessa il valore economico della sua opera, quanto far valere la sua idea, la sua visione, e offrire al pubblico il suo pensiero artistico, in ogni modo possibile; infine gli attori, i quali non hanno un vero e proprio posto in questa scala gerarchica: si muovono tra arte e economia (quasi una vera sintesi tra produttore e regista), guardano alla loro interpretazione senza sottovalutare gli incassi potenziali, e, molte volte, la loro fama non è altro che apologo di viziosa superbia: eppure, la loro bravura e il loro potere sugli spettatori, risultano essere importanti fattori per il decollo dell’opera. Quello hollywoodiano è uno dei processi più complicati e macchinosi che possa esistere in un’industria: un uomo ha un’idea, scrive una sceneggiatura, ma ha bisogno di un produttore; si trova il produttore, ma questi impone le sue condizioni, ad esempio “questo regista”; il regista accetta, ma, a sua volta, impone delle condizioni, ad esempio “ritocchi alla sceneggiatura e questo attore”; dopo aver ritoccato la sceneggiatura si trova l’attore desiderato: questi accetta, ma ha le sue condizioni…
Molte volte il cinema ha raccontato filmicamente questi nefasti tentativi di realizzazione, portando anche il discorso alle estreme conseguenze: da Il disprezzo (Le mépris, 1963) di Godard fino al più recente Disastro a Hollywood (What Just Happened?, 2008) di Barry Levinson, passando per Gli ultimi fuochi (The last tycoon, 1976) di Elia Kazan – per non parlare di Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950) con il quale Billy Wilder rilegge, fino alla “follia omicida”, il mito del cinematografico divismo femminile –, il cinema, ironizzando sulla propria condizione e sulla propria realtà, ha scherzato, pianto ed è impazzito nel tentativo di dare una spiegazione logica alla paradossale realizzazione di un’opera che, nata da un contesto artistico, è costretta a barcamenarsi tra vizio, superbia e denaro. Il cinema entra nel suo stesso mondo per specchiarsi e, alla fine, ciò che ne viene fuori no è la dorata apparenza che il pubblico osserva costantemente: i difetti sono molti, e se i film aiutano a sognare, la loro realizzazione è spesso paragonabile ad un incubo.
Gli ultimi fuochi e Disastro a Hollywood sono due film distanti più di trent’anni, ma uniti da un filo conduttore che prende il nome di Robert De Niro (anch’egli ormai essenziale ingranaggio del sistema hollywoodiano). Forse del tutto involontariamente, Levinson ripropone un De Niro nelle vesti di produttore, così come era già stato per Kazan; lo spettatore più attento difficilmente non avrà pensato a Monroe Stahr, il romantico “ultimo magnate” hollywoodiano: uomo ricco e potente, di fine intelligenza e lingua tagliente, è assoluto padrone del suo regno: gli studi hollywoodiani dov’egli, a suo piacimento, elogia o distrugge attori, sceneggiatori e registi; eppure la sua grande forza va man mano rimpicciolendosi, fino a giungere alla completa fine; Kazan osserva un uomo votato alla decadenza, che cerca in tutti i modi di restare aggrappato ad un sogno che, parallelamente, si lega al suo stesso lavoro: quel mondo cinematografico che non ha più nulla da offrirgli ma che lo vede costantemente succube, perché innamorato.
Trent’anni dopo è Levinson a riproporre De Niro nelle vesti di produttore, ma ormai i tempi sono cambiati e l’idea romantica del “fare cinema” è una lontana chimera. Ben (un De Niro apparentemente calmo, ma pronto ad esplodere per la tanta rabbia accumulata) è costretto quotidianamente a barcamenarsi tra problemi lavorativi e disagi familiari (con alle spalle un secondo divorzio non del tutto digerito); ritmi veloci, stress continuo, Ben è alle prese con un doppio problema: da un lato tentare di convincere un giovane e facilmente irritabile regista a cambiare il finale di un suo film (interpretato da Sean Penn), durante il quale si assiste al brutale omicidio di un cane; dall’altro lato, invece, avendo in preproduzione un film con Bruce Willis, si accorge che la lavorazione non può partire in quanto l’attore ha deciso di farsi crescere un’enorme barba, risultando del tutto irriconoscibile: Ben prova a rimediare, ma Willis sembra del tutto inconvincibile, rischiando così una denuncia da parte degli investitori. Per l’intera durata dell’opera Ben cerca di recuperare in tutti i modi una posizione che, se prima lo vedeva personaggio centrale, ora sembra del tutto defilato: ma bisogna fare qualsiasi cosa per restare a galla e non perdere il potere.
Produttori in bilico, pseudo-sceneggiatori che cercano in tutti i modi di farsi produrre un lavoro, manager nevrotici e sempre impauriti dalla possibilità di perdere i loro clienti migliori, eccentrici ed irascibili registi che se ne fregano altamente dell’idea economica del film al fine di far recepire il loro messaggio artistico, attori inebriati dal proprio successo e talmente desiderati dal pubblico da avere potere decisionale sulla vita e sulla morte di un film: tutti rinchiusi in un sistema (quello hollywoodiano) dove il potere del denaro ha ormai del tutto disintegrato l’idea artistica dell’opera. Se non ci sono soldi la strada è chiusa; se i soldi ci sono, invece, c’è una speranza: basta solo accontentare i tanti vizi di divi superpotenti.
Il limite che divide il sogno dalla follia è sempre stato molto sottile: una tesi avallata dalla visione di Levinson; la follia del denaro pervade gli uomini potenti, distrugge la loro vita famigliare nonché, molte volte, il loro sistema nervoso. Tutto questo però, non solo per tentare in tutti i modi di non perdere quel potere guadagnato col tempo, ma anche per cercare ancora di realizzare quei sogni che possano rapire gli spettatori cinematografici, molte volte del tutto inconsapevoli del fatto che i loro sogni, per uno spropositato numero di persone, sono stati degli incubi.
Ma questa è Hollywood, e lo spettacolo deve sempre continuare!.

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