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Time

Pubblicato il 17 febbraio 2021 da Francesca Pistocchi
VOTO:


Time

Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno in cui l’industria cinematografica statunitense ha lentamente riacquistato consapevolezza nei confronti della realtà storico-sociale che circonda la macchina da presa: One Night in Miami di Regina King (http://www.close-up.it/one-night-in...), o Ma Rainey’s Black Bottom di George G. Wolfe (http://www.close-up.it/nuovo-artico...) e, a suo modo, perfino Malcolm & Marie di Sam Levinson (http://www.close-up.it/malcolm-marie) ci trasportano in un presente più prossimo di quanto non sembri – a voler essere precisi, quello dell’America di Trump e del Black Lives Matter. Indipendentemente dalle coordinate spazio-temporali su cui questo genere di film punta i riflettori – dalla Chicago anni ’20 alla Florida anni ’60, per chiudere il cerchio sui corridoi claustrofobici della pandemia – non possiamo fare a meno di intravedere, all’interno di questi volti, anche un po’ il nostro volto. Nei mesi che precedono lo sbarco di Regina King sulla Laguna con One Night in Miami , la giovanissima regista Garrett Bradley già sembra esibire una certa consapevolezza dietro la cinepresa: vincitore dell’Independent Spirit Award per il miglior documentario all’ultimo Sundance Film Festival, il suo Time - presentato prima alla scorsa Festa di Roma 2020 e ora disponibile su Prime Video - buca letteralmente lo schermo.

Lo sguardo della Bradley, consapevole per scelta e cattedratico per necessità, si focalizza sulla New Orleans dei nostri giorni, pedinando Sibil Fox Richardson nella sua via crucis contro la cosiddetta “giustizia”. Ora, Sibil detta Fox Rich non è una leggenda del soul, né un’attivista, né tantomeno una diva del cinema: Sibil è una persona come tante, cresciuta in una città come tante nel bel mezzo degli Stati Uniti. In un passato recente e al contempo lontano anni luce, Sibil è stata in carcere. L’accusa dice: rapina a mano armata di una banca. Con lei, viene arrestato anche il marito Robert. Dopo aver accettato un patteggiamento, la donna ritorna in libertà. Non si può dire, tuttavia, lo stesso del suo compagno, condannato ad una pena di sessant’anni: sessant’anni senza sconti, senza condizionale, senza possibilità di replica. Sessant’anni in cui ogni contatto col mondo esterno (che si tratti di visite o di telefonate) viene contingentato, mediato, dissipato fra i labirintici corridoi della burocrazia. Sessant’anni di ostacoli, per qualunque cosa: per vedersi, per sentirsi, per parlarsi, perfino per pensarsi. Da qui in avanti, la cinepresa comincia a contare i secondi, i minuti, le ore che misurano la battaglia della protagonista per riavere indietro la propria vita e, con essa, la propria famiglia.

Il linguaggio in cui il film si articola è a tratti virtuoso, a tratti marcatamente e brutalmente amatoriale: sul palcoscenico si accatastano le istantanee di Sibil prima e dopo la galera, Sibil quindici anni fa con i figli ancora piccoli, Sibil dieci anni fa ad una festa in piscina, Sibil al parco, Sibil alla guida, Sibil nella casa vuota. L’oggi, invece, è filtrato attraverso l’occhio della regista, eppure non sembra essere cambiato niente – se non l’età dei ragazzi. Per il resto, osserviamo le stesse immagini: Sibil in piscina, Sibil al parco, Sibil alla guida, Sibil nella casa vuota. È tutta questione di tempo – un tempo che pare dilatarsi all’infinito, perché è quello dell’iter amministrativo, delle frasi di circostanza, delle degradanti attese a cui ci si è ormai rassegnati. Il tempo di Fox Rich, suddiviso fra l’ufficio e la chiesa, si staglia sullo schermo in un bianco e nero opprimente. Il tempo non rappresenta altro che una consuetudine sociale, in esso non vi è proprio nulla di metafisico. Il tempo non sovrintende nessuna verità oggettiva, ma è costretto in una serie di norme umane e, proprio per questo, imperfette. Il tempo soggiace alla legge civile, invecchia con essa anche quando essa rifiuta di invecchiare: la condanna di Robert ne è la dimostrazione più tangibile.

L’impresa a cui il documentario si sottopone è quasi donchisciottesca: com’è possibile imprigionare vent’anni all’interno di una semplice pellicola? Nonostante la retorica (ripetiamo, imprescindibile) a cui l’opera si abbandona, la regista riesce nel suo intento, sebbene solo parzialmente. Con una tenacia incomprensibile per chiunque non abbia esperito la medesima distorsione spazio-temporale della propria quotidianità, Sibil riporta a casa il marito: eppure i giganti rimangono intatti all’orizzonte, le fondamenta ben radicate al suolo. Il cinema della Bradley suona come un’amara consolazione, il tempo cinematografico non può supplire le mancanze di quello burocratico: o forse sì? Aspettiamo una risposta. In fondo, è tutta una questione di tempo.


CAST & CREDITS

Time - Regia: Garrett Bradley; sceneggiatura: Garrett Bradley; fotografia: Zac Manuel, Justin Zweifach, Nisa East; montaggio: Gabriel Rhodes; interpreti: Rob Rich, Fox Rich, Freedom Rich, Justus Rich, Laurence M. Rich, Mahlik Rich, Remington Rich, Rob G. Rich; produzione: Concordia Studio, The New York Times, Outer Piece; Hedgehog Films; origine: USA 2020; durata: 81’.


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