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Tra silenzi e sospensioni. La figura femminile nel cinema di Kim Ki Duk

Pubblicato il 4 febbraio 2008 da Salvatore Salviano Miceli


Tra silenzi e sospensioni. La figura femminile nel cinema di Kim Ki Duk

Sembra voglia rimandarci ad una qualche forma di esoterismo corporeo Kim Ki Duk nel suo giocare e riflettere con la figura femminile. Ad essa pare volere affidare gli unici segni tangibili di un’esistenza che, senza posa, congiunge due tra gli estremi più lontani: il metafisico e la più triviale tra le condizioni umane. Nel suo ruolo di custode in fieri di spettri maschili ed angosce esistenziali, è alla donna che il regista coreano concede il privilegio di celare, nella sua figura, le chiavi di volta, i principi svelatori degli universi creati tramite il mezzo cinematografico; universi sempre nuovi, pur palesemente legati da un vincolo genetico, la cui rivelazione è spesso implicita in un sorriso sospeso tra il tragico e l’onirico, nel silenzio la cui carica semantica sprigiona incessantemente, nei giochi di luce ora dolcemente impressionisti, ora violentemente carichi di un esasperato espressionismo. Non vi è film di Kim Ki Duk privo dello sguardo femminile. Che siano vittime di abusi o costrette a prostituirsi, che siano aspiranti suicide o mogli semplicemente ignorate, la donna veicola i concetti primigeni del paradigma cinematografico del regista coreano. Nell’universo, privato del verbo, di Kim Ki Duk, è dunque la donna ad incarnarsi e a farsi parola. In ogni stupro rappresentato, tema assai ricorrente nella filmografia del regista coreano, sono le urla dei protagonisti, tanto palesi ed assordanti quanto implicite, a riempire la scena. Come estrema manifestazione di vita, la violenza del corpo femminile sembra essere l’unico possibile sfogo in un mondo dominato dagli istinti. Nell’accettazione dell’abuso, le eroine protagoniste di film quali “Ag-o” (Crocodile - 1996) o “Nabbeun namja” (Bad Guy - 2001) divengono, consequenzialmente, le reali motrici delle azioni di tutti gli altri personaggi, assumendo lo status di figure eteree il cui impulso vitale vibra, senza termine, trasformando il corpo in una cassa di risonanza dell’esistenza tutta. Sono, per l’uomo, insieme, via di salvezza e ritratto di disperazione, rifugio ed inferno. In “Paran daemun” (Birdcage Inn - 1998), il disprezzo e l’invidia mascherata da odio di cui è vittima Jin-ah non cela ma, al contrario, sottolinea come lei sia l’unica ad avere dentro di sè piena coscienza del valore della vita. Salvando prima una tartaruga e poi dei pesci, Kim Ki Duk le offre il ruolo di depositaria dell’esistenza e di forza salvifica. I suoi silenzi, le umiliazioni subite, i suoi occhi che sembrano non cercare vendette, pur legittime, ma solo comprensione ed amore, riflettono chiaramente il raggiungimento, anche se non consapevole, di uno stadio altro. Uno stadio in cui, non ciò che si fa, ma ciò che si è, legittima il continuare a vivere. E da oggetto di derisione si tramuta in depositaria di stima e di libertà. Il personaggio messole in contrapposizione, Hye-mi, figlia puritana e moralista dei padroni della locanda, riuscirà, solo grazie a lei, a riappropriarsi della sua femminilità, del suo essere donna, di una sessualità fino a quel momento repressa in nome di una morale il cui senso fondamentale è sfuggente proprio perché mancante di una reale riflessione critica. Nel suo ruolo di tramite tra il metafisico e la più turpe materialità, la donna assume in altri lungometraggi una coscienza di sè ancora più forte. Ciò è palese ne “Samaria” (Samaritan Girl - 2004) in cui Jae-yeong si prostituisce sì per trovare i soldi per andare in Europa, ma il cui reale ideale è molto più alto. Nel suo istinto/necessità di concedersi carnalmente si delinea la sua volontà di divenire dispensatrice dell’amore terreno. Come una moderna Vasumitra, leggendaria prostituta indiana, la sua missione è quella di far regredire gli uomini ad uno stato infantile, probabilmente l’unico in cui è possibile succhiare qualche attimo di felicità. Non vi è disperazione nella sua scelta ma una sorta di folle consapevolezza del proprio essere. La sua morte, scelta e non subita, è preceduta da un sorriso. Contraria al martirio, comunica, proprio con quel sorriso, la sua essenza di confidente-amante all’amica, in un ipotetico passaggio di consegne. Ma la donna è anche Hee-jin, protagonista de “Seom” (The Island - 1999), che sembra aver dimenticato il suo ruolo salvifico e la religiosità del corpo nel prostituirsi per i clienti del suo “albergo”. Ma il suo oblio è figlio della miseria spirituale che il mondo le prospetta. Solo davanti alla sofferenza di un altro essere umano, riesce a far risvegliare la sua natura di curatrice dell’anima, e lo fa immergendosi senza paura nella disperazione dell’altro. Le mutilazioni fisiche diventano specchio di quelle spirituali, le violenze assumono la consistenza feroce della paura e del rimorso. Il suo lenire i dolori altrui prende la forma del silenzio e di una concessione fisica che diventa panismo, piena compenetrazione. La sua morte viene avvolta dal mistero degli elementi e l’acqua, in cui volontariamente annega, ci conduce a quella che parrebbe essere la volontà della natura/madre di ricongiungersi con la propria prole. Come liquido amniotico avvolge il corpo ormai privo di vita di Jae-yeong che mai, come in questo momento, vede posarsi sul proprio volto un alone di serenità. In questo legame primo ed indissolubile, che in alcuni momenti vive attimi di totale identificazione, tra Natura e Donna, è scritto il pensiero di Kim Ki Duk. Entrambe rappresentanti delle pulsioni più intime e profonde, nell’una ritroviamo l’altra, o, ancora meglio, l’una si esplica nell’altra. Ciò che le costrizioni corporee rendono terreno, la donna riesce a liberare fino al raggiungimento di una immaterialità poetica e perenne. In “Bin-jip” (Ferro 3 - 2004) è il legame delicato ma da subito indissolubile tra Tae-suk e Sun-hwa a permettere al primo di superare le barriere fisiche. Spogliando l’anima dalla carne, raggiunge un’invisibilità che lo conduce in un limbo in cui la materia non esiste più, ma in cui, al contrario, tutti gli elementi giocano a confondersi nella sua essenza. Ma è solo la presenza di Sun-hwa a rendere tutto ciò possibile e unicamente nella violenza dei suo silenzi così come nella delicatezza dei suoi gesti può prendere corpo una tale forma di amore. Il cinema di Kim Ki Duk vive di sospensioni ed è tra queste che la donna deflagra con prepotenza, rimette le vesti di forza organizzatrice e semantica. Che ciò avvenga nella violenza di uno stupro o nella lucida consapevolezza di una scelta non importa. Ciò che davvero è importante sottolineare è la volontà del regista di non fermarsi davanti ad ogni singola figura femminile, ma come il suo intento sia quello di creare un’entità che abbia in sé mille sfaccettature, il cui sguardo sia reso libero di vagare verso i più differenti paesaggi, che possa esprimere indistintamente forza, violenza ma anche giustizia, lealtà, amore. Jin-Ah, Hee-Jin, la Sun-hwa di Bad Guy come quella di Ferro 3, Jae-yeong non sono, dunque, altro che emanazioni di un unico essere, colori diversi, appunto, di un unico grande prisma.


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