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TRE GIORNI DI ANARCHIA

Pubblicato il 13 maggio 2006 da Edoardo Zaccagnini


TRE GIORNI DI ANARCHIA

La Sicilia di Vito Zagarrio è incandescente ondulazione di grano al culmine. Vicolo biancastro abitato da contadini di ignoranza cantata. Fa caldo e quelle pietre arroccate sui rialzi di terra ritornano perle sporadiche distinguibili a fatica per l’occhio del viaggiatore distratto. Cicale e zone d’ombra in cui fare l’amore sorvegliano la piazza, la chiesa, le umili case: si compone quel fertile conflitto tra natura e politica di cui il cinema ama nutrirsi. L’odore lontano del mare si inquina con quello del male e l’azzurro totale del cielo si sporca col sangue del proletario più incline al sogno. L’isola magica è popolata di giovani ardenti, mori con occhi neri, camicie bianche e ciuffi pendenti di un riccio lucido e voglioso. Ma dietro le finestre dei palazzi (fatiscenti ed isolati) si nascondono baroni panciuti e padroni, panze sporche a cavallo di un’eleganza mafiosa. Qualche asino assiste alla Storia ed ascolta gli spari lontani, mentre sventola, ancora per poco, una fragile bandiera rossa. E’ una dolorosa, vigorosa ed attualizzabile poesia. Il palcoscenico di un poema di amori ed eroi su cui la storia beve pagine epocali. La mafia e il fascismo si incrinano, temporaneamente, ai colpi dell’ardore che scorre nel poco tempo per amare sotto un albero, in un fienile. La pelle scura di seta si mescola alle falci, allo sbarco americano e agli ideali. Il sole si placa solo alla luna e gli eventi idealizzati del caldo novecento si sono appena rifatti pellicola. Le labbra carnose di Enrico Lo verso sono paradigma culturale. Prestano la loro sensuale bellezza all’eroe positivo. Lo pongono sul gradino più alto della piazza e costringono i due schieramenti a piegarsi ai sensi. I contadini, gli stessi di Montelepre, di Cinisi, di Bronte, di Donna Fugata, urlano il nome del leader salvatore e lo lasciano amare la donna più bella. Lui la danza nell’umile festa finché il desiderio timido e irrefrenabile lo conduce al silenzio delle carezze. I potenti lo invitano ad assaggiare il vino migliore, ad ascoltare redditizi progetti di avvenire macchiato. Lui ama entrambe le carni. Poi sceglie, con travaglio e paura, la direzione più saggia. Intorno alla sua incerta umanità passa la cinematografica realtà di un secolo che trova in questa antica terra una valida forma di universalizzazione. Giuseppe Migliore sarebbe amico di Placido Rizzotto, di Salvatore Carnevale, di Peppino Impastato e di ogni pura bellezza interiore letteraria. La sorte lo lega al cinema attraverso un lasso di tempo brevissimo e volendo metaforico: un piccolo centro vive tre giorni di utopica anarchia tra la caduta del fascismo e l’arrivo materiale di un contingente americano. I progetti rimbalzano e si scontrano; le iene vengono giustiziate, i lupi con fatica scacciati. Si corre verso la terra, con un campo totale già visto ma ancora una volta bellissimo. Lo Verso è in testa e gli spari da dietro la roccia sono tutti di un extra filmico di indistruttibile memoria. Non c’è la fine del sogno e non è questo a rendere fiction la mescola di romanzo e storiografia. L’odore del doppio appuntamento in chiaro arriva leggero e si intensifica ogni tanto ma in generale la sostanza edificata dallo Storico del cinema Zagarrio, si avvicina a una cultura filmica espressa nella descrizione barocca tentata in queste righe. Gli scenari tornatoriani, arrendevoli ad efficaci didascalie su una responsabilità sociale alla base del ventennio più noto, rappresentano uno sforzo apprezzabile in funzione di una valenza estetica a cui il mezzo non è detto che debba rinunciare. La Sicilia di Zagarrio non è insolita e sorprendente come quella dell’ultimo Bellocchio, però resta visione dignitosa al cui interno sopravvive una storia foriera di tranquille emozioni.

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