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Tribeca Film Festival 2015

Pubblicato il 6 maggio 2015 da Monia Manzo


Tribeca Film Festival 2015

Fondato nel 2002 da Jane Rosenthal, Robert De Niro e Craig Hatkoff come risposta di vitalità culturale all’attacco alle Torri gemelle l’11 settembre dell’anno precedente, il Tribeca Film Festival racchiude un insieme di tendenze cinematografiche che hanno sì come epicentro gli States e New York in particolare, ma che sconfinano fino ad arrivare ai paesi scandinavi passando per l’Italia. Molte le definizioni contrastanti, agli antipodi, utilizzate dalla stampa, che non fa che definire il Festival da una parte generalista e dall’altro innovativo, ricco di idee e vitalità.

Va da sé che la verità stia nel mezzo e, vista la scarsissima presenza della critica nostrana in questo evento, potremmo giustificare anche il perché di affermazioni non molto appropriate per un fenomeno cinematografico che si è evoluto in un melting di cultura pop americana e una sorta di ritorno allo stile beat nello scambio di valori sociali tra emisfero est ed ovest del mondo.

Non a caso la sezione "World documentary" è molto corposa e presenta una vasta scelta di validi registi e autori, anche rispetto alla sezione più importante del festival, la "World narrative".

Si parte dall’italiano Palio della regista italo-inglese Cosìma Spender, a cui è stato assegnato il premio come miglior montaggio, non è un caso infatti che in un affresco di incantevoli immagini della città di Siena e dell’omonimo palio si riesca a profondere un’atmosfera antica ed una forte tradizione medievale mai sopita; passando attraverso un intenso Song of Lahore, in cui Sharmeen Obaid-Chinoy e Andy Schocken narrano la lotta di alcuni musicisti contro un’estremistica islamizzazione del Pakistan, che per molti di loro avrebbe rappresentato l’impossibilità di esprimersi artisticamente e non solo.

Ricca di nomi importanti la sezione "Spotlight" ben rappresentata nella scelta di Jimmy’s Hall del grande Ken Loach, in cui si parla ancora una volta dell’Irlanda e della lotta per l’indipendenza, soprattutto quella dall’opportunismo e dall’ipocrisia strumentale della chiesa cattolica del tempo. All’interno della sezione troviamo anche uno dei quattro film selezionati per il festival indie newyorkese, ovvero Hungry Hearts diretto da Saverio Costanzo e interpretato dalla coppia Rohrwacher/Driver premiata con la coppa "Volpi" a Venezia.

Altro film proveniente dal bacino della Biennale è l’americano Requiem for the American, intensa e coinvolgente intervista, al più importante linguista e politologo, nonché intellettuale vivente: Noam Chomsky, da sempre coerente con le proprie idee sulla paralisi del mondo sociale americano causata dalle speculazioni economiche dall’appoggio politico del Congresso ad un sistema iper capitalistico, in cui la finanza ha creato una virtuale ricchezza e i mass-media dei bisogni indotti, vere e proprie trappole e potenti sonniferi per le coscienze civili e sociali del popolo statunitense (se non di tutto il mondo occidentalizzato), in cui comunque nonostante le forti visioni pessimistiche emerge un’incommensurabile amore di Chomsky per la vecchia America, paese dove tutto è possibile e in cui tutti hanno una possibilità di vivere inseguendo il loro sogno.
Rientra sempre nella descrizione della società americana, ma questa volta solo mostrandone la parte più progressista e un po’ confusa della famiglia, nonché della sessualità, intesa come libertà dei gender, Grandma,diretto da Paul Weitz e interpretato da due splendide attrici quali Lily Tomlin e Julia Garner, rispettivamente nonna e nipote.
Quest’ultima aspetta un bambino da un suo coetaneo e decide di chiedere aiuto all’unica persona della sua famiglia in grado di comprenderla: una nonna hippy e divertente, evidentemente omosessuale. Il film si presenta come un "road movie" piuttosto movimentato, in cui l’alternativa nonna ripercorrerà tutto il suo passato incontrando vecchie fiamme e amori etero che hanno lasciato segni indelebili nelle loro esistenze. L’Happy end familiare richiuderà un cerchio in cui mancava da tempo l’anello intermedio, la madre, diversa per l’aspetto e la vita iper-borghese dalle altre due donne della sua vita.

Non poteva mancare nemmeno in questa sezione un lavoro italiano, già uscito nelle sale e in questo caso di autori eccellenti: i fratelli Taviani con il loro Meraviglioso Boccaccio, vivace rievocazione medievale e preziosa letteratura.
Delle numerose storie raccontate attraverso i giovani sfuggiti alla peste fiorentina, i nostri grandi rappresentanti italiani ne hanno scelte solo cinque (alcune modificate sia in itinere che nel finale) cercando di divertire o far riflettere lo spettatore su un’umanità passata ma molto attuale. Il cast composto da giovani attori non famosi ma non meno validi di quelli adulti come il versatile Kim Rossi Stuart o le belle Carolina Crescentini e Jasmine Trinca.

Una particolare attenzione va a Slow West già presentato al "Sundance", un film diretto da John Maclean e prodotto da Micheal Fassbender che ne è anche protagonista insieme ad un giovanissimo attore Kodi Smit-McPhee, già fattosi notare in Romeo and Juliet di Carlo Carlei, in cui è Mercuzio.
In questo lavoro invece abbiamo un giovane aristocratico scozzese che si avventura nell’ovest della costa americana alla ricerca della fidanzata; lì incontra un tipo molto particolare interpretato dal sempre affascinante Fassbender, attore in continua crescita che non finisce mai di stupirci in quanto a talento e capacità di passare da un ruolo all’altro senza cadere nella trappola delle stereotipie.

Da Cannes 2014 arriva invece The Cut, film impegnato diretto dall’amatissimo regista turco-tedesco Fatih Akin, che ripercorre la storia del genocidio armeno, deludendo però le aspettative per chi lo aveva ammirato per Soul Kitchen e La Sposa turca.
Altro film che pone come tematica centrale la famiglia è l’americano Bleeding Heart, in cui la vita dell’equilibrata istruttrice di yoga May (Jessica Biel) e del suo fidanzato (Edi Gathege) viene sconvolta dall’arrivo della sorella della ragazza che al contrario di lei vive una vita da sbandata battendo per strada: la sorella saggia cercherà di salvare Shiva, che la coinvolgerà nel suo caos assoluto. Commovente il mai esplicito legame tra due sorelle che in questo film scritto diretto dalla regista Diane Bell, emerge prepotentemente.

Nella sezione "Spotlight" troviamo anche un lavoro documentaristico di Lisa Immondino Vreeland, questa volta alle prese con una biografia di una delle donne più importanti della storia dell’arte statunitense intitolata Peggy Guggenheim- Art Addicted. Nonostante l’imprinting modaiolo, il documentario presenta un’importante analisi delle influenze che ebbero sulle scelte artistiche di Peggy i suoi celebri e geniali amici: Duchamp, Cocteau, Beckett e Rothko. Questo lavoro di Lisa Imondino Vreeland consente una profonda riflessione su quanta vita e energia provenisse dai rapporti intellettuali che sono intercorsi tra coloro che diedero un volto estetico all’arte occidentale del XX secolo.

La sezione " World Narrative" ha riconfermato la valida presenza dell’Italia premiando l’opera prima di Laura Bispuri Vergine Giurata a cui va un plauso particolare. Non passa inosservato il fatto che però quest’anno abbiano fatto incetta di premi gli scandinavi: a partire dal film che ha ottenuto più riconoscimenti, quel Virgin mountain diretto da Dagur Kári e girato in pochi spazi, quasi tutti interni, tanto da evocare il Kammerspiel nordico, in cui gli ambienti sono emblematici di una vita soffocante e ripetitiva. È all’interno di questo scenario che si muove il protagonista Füsi, un omone obeso, con scarsissima capacità comunicativam che vive ancora a casa con la madre a 43 anni (età che per gli Scandinavi a differenza nostra risulta assurda) e non esce mai tranne che per andare a mangiare da solo al giapponese. In questa vita asfissiante e atonale, Füsi incontra una ragazza durante un corso di ballo regalatogli per il suo compleanno: il nostro orso si innamora e come tutti coloro che vengono coinvolti dal vortice incontrollabile dell’amore, si sente invincibile, prendendo coraggio e cambiando modo di condurre la propria scialba esistenza.
Questo viaggio "meisteriano" lo porterà alla scoperta di un mondo sconosciuto, che può dare e togliere molto. Impeccabile l’interpretazione di Gunnar Jònnson, che ha impalmato il premio di miglior attore così come Kári ha ottenuto quello di miglior sceneggiatura.

Continuando sulla scia scandinava troviamo Bridgend, un giallo tra lo stile drammatico e l’horror: numerosi ragazzi si sono suicidati negli ultimi anni nella città di Bridgend raggiungendo il picco di ben 79 morti nel 2007. È indubbio il fatto che una simile storia possa impressionare lo spettatore che vive una finzione narrativa strappata ad una delle realtà più oscure e inspiegabile.
Eccezionali risultano essere i giovani attori nei panni di ragazzi annoiati e in preda a delirio di massa e a suggestioni. Anche in questo caso sono fioccati premi: migliore attrice alla giovane Hanna Murray, miglior fotografia a Magnus Jønk e miglior montaggio a Oliver Bugge Cottée.

Seppur privi di riconoscimenti ufficiali vorremmo ricordare due film americani che parlano in modo profondo dei rapporti familiari partendo da due presupposti differenti:Meadowland diretto da Reed Morano e interpretato magistralmente da Olivia Wilde, che ne è anche produttrice, e Dixieland diretto da Hank Bedford interpretato Chris Zylka e Riley Keough.
Entrambi potrebbero essere definiti intimisti grazie ad una sceneggiatura che attraverso delle situazioni drammatiche svela le parti deboli della famiglia e dei fragili legami.

Meadowland evoca attraverso il nome l’esistenza di una coppia che diventa il centro e l’ognidove dello sterminato paesaggio americano. La sparizione di un figlio infatti spinge i protagonisti a lottare per la sopravvivenza della coppia e responsabilizzazione sociale dei loro lavori: le interpretazioni toccanti ci fanno immergere in un clima di estrema sofferenza e smarrimento.
Dixieland rimanda invece all’esistenza di un sottoproletariato americano anch’esso emblema di un "nowhere" come se si volesse enfatizzare l’apparente banalità di esistenze invisibili che si rivelano invece dei mondi incredibilmente complessi in cui spesso dimentichiamo di immergerci.

Il Tribeca Film Festival è stato tutto questo e altro: a qualche giorno dalla fine della manifestazione si riordinano le idee sul molto materiale offerto e non si può fare a meno di percepire una peculiare caratteristica di questo evento: parlare della cultura americana senza mai dimenticare che negli States sono contenute tutte le forme culturali e antropologiche che oggigiorno vengono riproposte attraverso i film stranieri.

Quest’anno è stato un momento cruciale per il Nord dell’Europa e anche l’Italia è riuscita a farsi ricordare con un film atipico, giovane e importante grazie alla promettente Laura Bispuri.

World Narrative Competition

Miglior film: Virgin Mountain – Dagur Kári
Miglior attore: Gunnar Jónsson – Virgin Mountain
Miglior attrice: Hannah Murray – Bridgend
Miglior fotografia: Magnus Jønck – Bridgend
Miglior sceneggiatura: Virgin Mountain – Dagur Kári
Miglior montaggio: Oliver Bugge Coutté – Bridgend
Miglior regista esordiente: Josef Wladyka – Manos Sucias

World Documentary Competition categories

Miglior documentario: Democrats di Camilla Nielsson (Danimarca)
Menzione speciale della giuria: In Transit – Albert Maysles, Nelson Walker, Lynn True, David Usui e Ben Wu (Usa)
Miglior montaggio: Valerio Bonelli – Palio (Italia)

Best New Narrative Director competition

Miglior regista: Zachary Treitz – Men Go to Battle
Menzione speciale della giuria: Stephen Fingleton – The Survivalist

Best New Documentary Director competition

Albert Maysles New Documentary Director Award: Ewan McNicol e Anna Sandilands – Uncertain
Menzione speciale della giuria: Erik Shirai – The Birth of Saké

Premio Nora Ephron

Vergine giurata di Laura Bispuri


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