X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Ugo Tognazzi: in ricordo della Maschera

Pubblicato il 27 ottobre 2010 da Donato Guida


Ugo Tognazzi: in ricordo della Maschera

Il 27 ottobre di venti anni fa moriva a Roma, a causa di un’emorragia cerebrale, Ugo Tognazzi: 68 anni che, col senno del poi, si può dire che siano stati spesi benissimo, ma che, purtroppo, visto l’uomo nonché l’artista, sembrano essere davvero pochi.
Uno dei più grandi attori che il cinema italiano (e non solo) abbia mai avuto, viene finalmente ricordato da una popolazione che gli deve molto, non solo a livello artistico, ma anche a livello sociale (i grandi personaggi portati da Tognazzi sullo schermo hanno sempre rappresentato lo specchio della società e dell’uomo italiani): il Festival Internazionale del Film di Roma rende omaggio all’attore proponendo prima di ogni film del concorso uno spezzone tratto da un suo film; un omaggio che si aprirà con la presentazione del documentario Ritratto di mio padre, firmata dalla figlia di Ugo, Maria Sole Tognazzi; opera atta a celebrare i venti anni della morte del padre, grazie anche a immagini inedite e di repertorio e interviste a chi l’attore lo ha conosciuto bene.
Parlare di Ugo Tognazzi non è mai facile, anche perché si tocca un argomento difficile e, artisticamente parlando, molto ampio e complesso: non basterebbe un intero volume (figuriamoci una piccola recensione) a contenere biografia, filmografia, teatrografia e altri svariati lavori di un attore che in poco meno di cinquant’anni di lavoro ha inanellato un qualcosa come 150 lavori cinematografici e quasi una trentina di lavori teatrali (per non parlare della televisione che lo ha battezzato artisticamente); dieci i premi cinematografici vinti nella sua carriera (pochi se si considerano le grandi interpretazioni a cui ci aveva abituato), 3 David di Donatello, 4 Nastri d’Argento e un meritatissimo premio a Cannes per la sua interpretazione ne La tragedia di un uomo ridicolo (1981) diretto da Bernardo Bertolucci. Riconosciuto come uno dei “mattatori” della commedia all’italiana (al pari di Alberto Sordi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi, Tognazzi è stato quanto di meglio il cinema (e l’umanità) abbia potuto offrire: non solo comicità, ma anche satira, dramma e commozione, il tutto racchiuso in un solo uomo.
Nato a Cremona il 23 marzo del 1922, a causa del lavoro del padre (ispettore assicurativo) è costretto a spostarsi per molte città d’Italia e abbandonare gli studi all’età di 14 anni. Nel 1936 tornato alla città natale, Tognazzi trova lavoro come operaio alla fabbrica produttrice di salumi Negroni. Fin da piccolo la sua vena artistica sembra esplodere: nel tempo libero, infatti, recita nella filodrammatica del dopolavoro comunale, ottenendo anche un discreto successo, tanto che durante la Seconda Guerra Mondiale, richiamato in Marina, intrattiene i commilitoni con i suoi divertenti sketch. Tornato a casa nel 1945, la sua vena artistica sembra dover essere messa da parte, dato anche il suo nuovo lavoro come archivista; lavoro che, in effetti, dura poco, perché la voglia di recitare è tanta che lo porta a trasferirsi a Milano. I suoi primi lavori lo portano alla ribalta, tanto che viene notato da Wanda Osiris, la quale decide di scritturarlo: anche questa esperienza dura poco, però, a causa dello scioglimento della compagnia. Nemmeno il tempo di abbattersi che viene nuovamente scritturato dalla compagnia di Erika Sandri: vero e proprio trampolino di lancio, questo, che lo porta in giro per tutta Italia, facendo circolare il suo nome nell’ambiente “che conta”. Il teatro sembra essere il suo vero amore, anche se sarà il cinema a formarlo definitivamente, creando quel “mostro sacro” successivamente riconosciuto: Mario Mattoli è il rpimo regista ad accorgersi della bravura di Tognazzi e lo fa esordire nel suo film I cadetti di Guascogna (1950), al fianco di Walter Chiari (altro grande e indimenticato personaggio televisivo). L’anno successivo, però, incontra Raiomndo Vianello e, in breve tempo, formano una delle coppie televisive più comiche mai nate: figli della satira e del cinismo, i due hanno fin da subito messo in “guai politici” l’appena nata tv, grazie alle loro gag che viaggiano sul filo del rasoio della censura. Il primo programma che li vede attivi è Un, due, tre, ed è proprio qui che cominciano i primi guai; da un lato il “ruspante” Tognazzi e dall’altro “l’inglese” Vianello decidono di mettere in scena un incidente accaduto a Gronchi alla Sala di Milano: l’allora capo dello Stato, al fine di un gesto galante nei confronti di una signora, cade a terra perché la sedia gli è stata sottratta, il tutto sotto gli occhi di De Gauelle. Un’occasione imperdibile per il duo satirico che, pochi giorni dopo, ripete la stessa scena: Tognazzi tenta di sedersi senza però trovare la sedia, e cade rovinosamente a terra, e Vianello gli grida: «Ma lei chi si crede di essere?». Il fuoco della censura non esitò ad abbattersi: la sera stessa il programma viene cancellato e il Direttore della sede Rai di Milano viene cacciato.
Al di là delle mere vicende censorie, resta la bravura di due attori che stanno facendo molta strada: ovviamente, però, l’arte di Tognazzi è più elevata rispetto a Vianello. Gli anni ’50 vedono un Tognazzi operoso e che cresce di anno in anno, grazie alle sue fatiche cinematografiche, anche se si tratta di piccole commedie (basti pensare che il solo anno 1959 lo vede interprete di ben 16 lavori cinematografici). Anche se si parla di piccole opere cinematografiche, la bravura dell’attore cremonese non viene ignorata, tanto che il decennio ’60 lo innalza tra i migliori attori della cinematografia italiana.

Gli anni ’60

Dopo i tanti film interpretati durante gli anni ’50, Tognazzi decide che è arrivato il momento di confrontarsi con la commedia all’italiana, e lo fa introducendo una maschera del tutto nuova (rispetto a quelle di Sordi, Mastroianni, Manfredi e Gassman): Tognazzi è l’italiano medio, un po’ vile, un po’ pigro e anche maschilista, ma che in realtà si fa facilmente sottomettere da chi sembra essere più forte di lui (a livello societario ed economico) e non perde occasione di sfruttare chi è più debole; un vero e proprio specchio della piccol-borghese italiano (pasolinianamente parlando). Il suo debutto nella vera commedia avviene con Luciano Salce, che lo sceglie per interpretare il suo Federale (1961), un piccolo fascistello che un professore antifascista, da lui arrestato, vorrebbe rieducare in termini di libertà e giustizia. È grazie a questo film che Tognazzi abbandona le precedenti macchiette al fine di ritagliarsi un personalissimo spazio nella cinematografia italiana. Il 1961 è anche l’anno che lo vede debuttare dietro la macchina da presa con il film Il mantenuto, opera forse non brillantissima, ma che comunque attesta la grande volontà dell’attore di fare arte in qualsiasi modo possibile. La strada di Tognazzi sembra essere sempre più in discesa grazie alla sua bravura e la commedia all’italiana lo accoglie come figlio legittimo: tanti sono i registi che si affidano alla sua interpretazione durante questi anni, e grazie a questa collaborazione non tardano a giungere film magnifici ed esilaranti: è il caso, ad esempio, di film come La marcia su Roma (1962) e I mostri (1963) di Dino Risi, L’immorale (1966) di Pietro Germi, Il magnifico cornuto (1964) di Antonio Pietrangeli. ma questi sono gli anni di una nuovo e superba collaborazione, quella con il regista Marco Ferreri che, preso Tognazzi come suo modello d’attore (ruolo che sarà successivamente assegnato a Mastroianni), grazie al suo contributo riesce a realizzare alcune tra le sue migliori opere, come, ad esempio, L’ape regina (1963), La donna scimmia (1964), Marcia nuziale (1966). Film che, anche se all’apparenza sono definiti come “commedie”, hanno ben altro risvolto: grottesco e drammatico, elementi che fuoriescono non solo grazie alla bravura registica di Ferreri, ma anche grazie all’arte interpretativa di Tognazzi.
Al di là della bravura comica, l’attore non perde occasione per esibire il suo ammirevole lato drammatico, totalmente teatrale: bravi registi se ne accorgono e lo scritturano per le loro opere, come, ad esempio, Pasolini per il suo Porcile (1969) ed Ettore Scola per Il commissario Pepe (1969).
Intanto continua anche il suo lavoro da regista con film quali Il fischio al naso (1967) – forse il migliore di quelli diretti dall’attore, un film grottesco sulla scia ferreriana – e Sissignore (1968). Ormai la sua bravura è pienamente riconosciuta, ed anche i primi premi non tardano ad arrivare: nel 1964 vince il Natro d’argento come miglior attore protagonista nel film Una storia moderna: l’ape regina di Ferreri, premio bissato nel ’69 per La bambolona di Franco Giraldi, un David di Donatello come migliore attore protagonista nel 1967 per L’immorale di Pietro Germi e, per concludere i premi degli anni ’60, arriva quello che, forse, è il migliore, il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista, nel 1966, per Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli; Tognazzi, in questo film, appare per poco più di 5 minuti, ma la sua interpretazione è straordinaria (soprattutto per quel balletto comi-patetico realizzato su di un tavolino, da vedere e rivedere).

Gli anni ’70

Gli anni ’70 vedono un Tognazzi in grande spolvero che, oramai, dopo aver preso in mano le redini del gioco, riesce a risolvere in egual modo sia i ruoli comici che drammatici. Scola, Risi, Comencini e Monicelli si affidano spesso e volentieri a lui per l’interpretazione dei loro lavori comici: non bisogna dimenticare che il 1975 è l’ano di uno dei più grandi film cult che il cinema italiano abbia mai offerto, Amici miei di Mario Monicelli, film nel quale Tognazzi interpreta magistralmente “il Mascetti”, nobile decaduto che, dopo aver scialacquato tutta la sua eredità, è costretto a vivere in una cantina con i suoi figli e la moglie che, puntualmente, tradisce. Un personaggio che ha fatto della sua “supercazzola” un vero e proprio modus vivendi di svariate generazioni italiche.
Ancora i ruoli drammatici e grotteschi lo vedono protagonista: se Elio Petri gli offre una parte innovativa e spiazzante nel suo film La proprietà non è più un furto (1973), è ancora Marco Ferreri che lo vuole al suo fianco (mai del tutto sostituendolo con Mastroianni) per capolavori come, ad esempio La grande abbuffata (1973) e Non toccare la donna bianca (1974); e anche Alberto Lattuada si affida a lui per il suo film Venga a prendere il caffè… da noi! (1970).
Ormai giunto alla piena maturità artistica, Tognazzi continua a ricevere premi: uno degli ultimi è il David di Donatello come miglio attore in La Califfa di Alberto Bevilacqua. Ma anche se la “maturità” incalza, Tognazzi non disprezza ritornare ai vecchi tempi per quel che riguarda gli scherzi, e proprio nel 1979 si rende artefice di una delle più grande “supercazzole” mediatiche mai realizzate: in combutta con il settimanale satirico Il Male, accetta di farsi fotografare in manette mentre viene portato via da due finti poliziotti; lo stesso giorno tre finte edizioni de Il Giorno, La Stampa e Paese Sera vengono pubblicate con titoli che annunciano l’arresto dell’attore, in quanto capo delle Brigate Rosse. Anche nella giustificazione l’attore appare sempre di due spanne superiori agli altri: «In un periodo del genere ho solo voluto rivendicare il diritto alla cazzata». Ed e così che tra toni drammatici e goliardici, si chiudono gli anni ’70, i migliori per quel che riguardale sue interpretazioni.

Gli anni ’80, la depressione e la morte

Negli anni ’80 Tognazzi si dedica soprattutto al teatro, portando in scena opere quali Sei personaggi in cerca d’autore, L’avaro e M. Butterfly; ma è ancora il cinema a dargli le più grandi soddisfazioni, non solo per il secondo e terzo episodio di Amici miei, ma soprattutto grazie a Bernardo Bertolucci che gli ritaglia un ruolo su misura nel suo La tragedia di un uomo ridicolo (1981), dove interpreta splendidamente il ricco e (in)sensibile Primo Spaggiari, ricattato da alcuni terroristi che, dopo aver rapito il figlio, gli chiedono un miliardo di riscatto; nel momento in cui il figlio viene dato per morto, l’industriale caseario escogita un piano illegale nel tentativo di salvare la sua attività. L’interpretazione è talmente sentita che gli vale il primo (e, purtroppo, unico) premio internazionale, la Palma d’Oro come miglior attore protagonista a Cannes.
Tutti sembrano essere pazzi per Tognazzi, sia la critica (grazie a film più “cerebrali” come quello di Bertolucci) che il pubblico (grazie a opere più “popolari” come i già citati Amici miei, o Il vizietto). Eppure, tutta questa fama non serve a Tognazzi per salvarsi dalla sua più grande nemica, la stessa che ha distrutto Gassman: la depressione. Constatato ormai che il cinema italiano non riesce più a valorizzarlo, l’attore si richiude in sé stesso, facendo a poco a poco svanire quella grande vitalità sarcastica che lo ha sempre contraddistinto.
Un grande uomo, un grande cuoco (è risaputo il forte amore che Tognazzi ha sempre avuto nei confronti della cucina, elemento che ben fuoriesce in un’opera come La grande abbuffata di Marco Ferreri) e, soprattutto, un grande amatore – ha amato tre grandi donne in vita sua, e sposato solo due di esse, ma dalle tre ha avuto dei figli: Ricky dal suo primo amore, la ballerina inglese Pat O’Hara; dalla prima moglie Margaretha Robsham ha avuto Thomas; dalla seconda moglie, vero amore della sua vita, l’attrice Franca Bettoja, ha avuto Maria Sole e Gianmarco. Tognazzi ha messo su una grande famiglia che, nonostante una movimentata vita, è stata sempre molto unita, ultima vera alcova protettiva nella quale l’attore si è rifugiato nel periodo depressivo, prima della morte.
Il 27 ottobre del 1990, a causa di un’emorragia cerebrale, muore a Roma, a soli 68 anni. Come detto in precedenza, Roma ha deciso di omaggiarlo; omaggiare l’uomo, l’attore, l’artista mai dimenticato ma che, in ogni caso, continua a mancare non solo al cinema (italiano e non), ma all’Italia tutta che, dalla sua scomparsa, ha perso un bel po’ del suo spirito comico e goliardico.


Enregistrer au format PDF