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Un mito inossidabile: Sisifo

Pubblicato il 21 febbraio 2007 da Alessia Spagnoli


Un mito inossidabile: Sisifo

‘Se tutti riuscissero a capire che il lavoro non è soltanto un dovere, ma una condanna! «Guadagnerai il pane col sudore della tua fronte». Allora probabilmente ci sentiremmo tutti più vicini, tutti uguali, tutti umiliati allo stesso modo e cercheremmo insieme la salvezza’. Ingrid Bergman (Europa ’51)

L’Europa unita, proprio quella preconizzata da Rossellini ormai più di mezzo secolo fa, ha assistito alla nascita e al progressivo ingigantirsi del primo grande problema comunitario: il lavoro. In tutte le contrade del vecchio continente, esso ha assunto gli stessi preoccupanti lineamenti, e si è fatto vieppiù precario, insoddisfacente, spersonalizzante.
Una riflessione sulle mutate condizioni lavorative, dai toni aciduli e corrosivi è stata anticipata dal film più intelligente della scorsa stagione, Il Cacciatore di Teste del vecchio Costa-Gavras. Il regista greco gettava il sasso nelle acque un po’ ristagnanti della riflessione sul tema e descriveva con feroce sarcasmo l’incubo in cui precipitava il suo protagonista, improvvisamente privato della sua vita di libero professionista. Le conclusioni cui perveniva erano a dir poco sconfortanti: senza lavoro non si ha più niente, non si è niente. Si può arrivare perfino ad uccidere in suo nome. La sua perdita conduce a quel particolare momento in cui alla catena dei gesti quotidiani, su cui si innesta l’abitudine ‘normalizzatrice’, si sostituisce la ricerca affannosa di qualcos’altro: ed è allora che il sentimento dell’Assurdo camusiano assale.
Tre film recenti hanno raccolto il testimone di Costra-Gavras e rilanciato la questione. Due film nordeuropei (Le Luci della Sera e Il Grande Capo), il terzo essendo rappresentato dalla scheggia impazzita Gondry, nel suo ultimo, chagalliano, L’Arte del Sogno, il quale non poteva che affrontare ‘di striscio’, eppure portando, con alcuni strali puntuti, un paio di illuminanti contributi al dibattito. L’insoddisfazione, dentro al sogno-incubo di Stephane è difatti provocata dal lavoro, oltre che dall’amore non corrisposto. E dal dilagante piattume che annichilisce qualsiasi residuo di senso dell’umorismo. La chiave della commedia prescelta dai tre autori, consente propriamente di scardinare certi meccanismi grotteschi del sistema, illuminandoli in toto e smascherandone, d’un tratto, l’esistenza. Il sorriso che deriva dalla neo-acquisita consapevolezza è un ghigno in cui viene percepito, in fondo, quanto ci sia piuttosto di disperante nella realtà contingente. Gondry, allora, propone un paradosso: perché il sogno, che è il frutto più autentico dei nostri desideri e, dunque, di noi stessi, dovrebbe essere meno ‘vero’ di tutte quelle costruzioni artificiose che la società ha dovuto creare per simulare un senso riposto nell’esistenza? In tal modo, la realtà si fa impenetrabile alla nostra interpretazione. I miti proposti del successo, della ricchezza, del potere hanno assolto a meraviglia la loro funzione anestetizzante.

C’è pure un quarto titolo, sorta di variazione al femminile sul genere, una piccola opera d’esordio ungherese selezionata alla Semaine de la Critique cannense, Fresh Air (Friss Levigo) di Agnes Kocsis. La regista magiara rende addirittura palpabile, con le sue scene sospese e rarefatte, come un lavoro meccanico e ripetitivo, oltre che non gratificante, possa arrivare ad incidere sul carattere di una persona, spegnendone le aspirazioni velleitarie. Il viaggio a vuoto della giovane Angela, che sognava di reggiungere Roma, salvo poi ritrovarsi al punto di partenza, costretta pure a sostituire la madre nell’odiata professione, è spia di un disagio necessariamente imploso.
Nei campi fissi di Kaurismäki come nelle inquadrature deliranti di von Trier, la figura umana viene denaturata di senso ed esibita in tutta la sua ridicola apparenza, smembrata, resa vacua e infine collocata in set orribili. Le atmosfere raggelate e i personaggi privi di sostanza del finlandese Kaurismäki e del danese ripropongono prepotentemente le atmosfere dell’Assurdo. Quest’ultimo lo fa, come d’abitudine, sbattendo in faccia l’appartenenza della sua commedia al movimento tramite l’invenzione del fantomatico commediografo Gambini. Per Camus, l’Assurdo trova una delle sue più compiute e manifeste realizzazioni proprio nella condanna al lavoro. E’ per suo tramite che si cerca di dare una giustificazione all’esistenza, che invece, egli ritiene, è priva di senso. Nel Mito di Sisifo, con lo schiavo incatenato che si affanna a trasportare faticosamente un enorme macigno su per la montagna, salvo poi vederlo rotolare puntualmente giù per il dirupo, è impressa emblematicamente e con forza incomparabile la condizione umana: quella del condannato ai lavori forzati.
Chiunque abbia l’ardire di proclamarsi fuori dal sistema avrà vita dura, come il fragile sognatore Stephane di Gondry, impreparato a fare i conti con la rapacità del mondo. Oppure col Grande Capo (il grande nemico), invisibile e perciò stesso venerato come un dio. Grande Capo che finisce col combaciare col ‘dio lavoro’ o con l’altrettanto insondabile Godot.
Kaurismäki, con il suo ‘antieroe’ vinto in partenza, contro cui ci accanisce crudelmente il destino cieco e la presenza della femme fatal, adotta una struttura da film noir, fra tutti, il genere maggiormente afferente all’area dell’Assurdo. La ribellione di Koistinen è parimenti destinata a fallire in partenza: egli finirà stritolato negli invisibili ingranaggi della trappola. K.-Koistinen andrà incontro alla sua sorte con spirito rassegnato, abiurando progressivamente le sue legittime rivendicazioni. Il metronotte di poche parole aveva detto: ‘Se lo scordano che io lì divento vecchio!’. Epperò lo aveva proferito con l’indifferenza abulica tipica dei personaggi che popolano le opere dell’Assurdo. Kaurismäki, palesa qui con la consueta, estrema lucidità di sguardo, un dato incontrovertibile: il lavoro permette di imprimere la nostra presenza nel mondo.
E’ la confortante normalità del lavoro. A pensarci bene, anche il lager la prevedeva.


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